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GRIMILDE

LA RASSEGNA STAMPA PRIMA DEL PROCESSO

martedì 25 giugno 2019

‘Ndrangheta Emilia, 16 arresti. C’è anche politico Fdi: “Io al Grande Aracri gli parlo chiaro, dobbiamo succhiare dall’azienda”

Il Fatto Quotidiano - 25 giugno 2019 - VIDEO ALL'INTERNO -

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In Emilia Romagna c’è ancora la ‘ndrangheta. Quattro anni dopo l’operazione Aemilia e a otto mesi dalla sentenza storica del primo maxi processo alle cosche in Regione con 119 condanne, sedici persone sono finite agli arresti e 64 sono indagate con l’accusa di essere legate alla cosca Grande Aracri. L’operazione si chiama Grimilde, coordinata dalla Dda di Bologna, ha colpito i vertici dell’organizzazione originaria di Cutro, in provincia di Crotone. Sono finiti in manette il boss Francesco Grande Aracri e i figli Salvatore e Paolo, che vivevano e comandavano da Brescello, comune già sciolto per mafia nel 2016. Ma anche Giuseppe Caruso, attuale presidente del consiglio comunale di Piacenza di Fratelli d’Italia. È accusato di associazione mafiosa e di essere stato agli ordini dei Grande Aracri quando era impiegato dell’agenzia delle Dogane. “Io so dove bussare. Ho amici dappertutto“, diceva in alcuni passaggi delle intercettazioni del 2015. E, parlando con il fratello: “Al figlio del boss gli parlo chiaro, dobbiamo succhiare dalla Spa“. Fdi ha deciso di cacciare Caruso dal partito e la presidente Giorgia Meloni ha annunciato che intendono costituirsi parte civile nel processo.

Le accuse – I sedici arrestati sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, estorsione, tentata estorsione, trasferimento fraudolento di valori, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, danneggiamento, truffa aggravata dalle finalità mafiose. Nell’ambito della stessa operazione, che ha coinvolto 300 agenti della polizia di Stato, è stato eseguito un sequestro preventivo di beni emesso dalla Dda di Bologna nei confronti dei principali appartenenti al gruppo criminale riguardante società, beni mobili e immobili, conti correnti. Sono state fatte anche 100 perquisizioni nei confronti di coloro che, pur non essendo direttamente destinatari del provvedimento restrittivo emesso dall’Autorità Giudiziaria di Bologna, sono risultati, nel corso dell’indagine, collegati al gruppo ‘ndranghetistico. Francesco Grande Aracri, già condannato per associazione mafiosa nel 2008 e fratello più anziano del boss Nicolino Grande Aracri, viveva a Brescello. La cittadina in provincia di Reggio Emilia è stata la prima, nel 2016, a essere sciolta in Emilia Romagna per le infiltrazioni della criminalità organizzata. Nel 2014, l’ex sindaco Marcello Coffrini, in un’intervista alla web tv Cortocircuito, definì il boss “gentile e molto tranquillo.

Caruso diceva: “Ho mille amicizie, da tutte le parti”. E con il fratello: “Al figlio del boss gli parlo chiaro”
Il presidente del consiglio comunale di Piacenza Caruso è entrato in carica a fine giugno 2017 nella giunta di centrodestra guidata da Patrizia Barbieri. Le accuse risalgono alla sua attività come dipendente dell’agenzia delle Dogane, prima di arrivare in consiglio comunale. Secondo il gip il politico Fdi “ha un ruolo non secondario nella consorteria“. E nelle intercettazioni del 2015 diceva: “Perché io ho mille amicizie, da tutte le parti, bancari… oleifici… industriali, tutto quello che vuoi… quindi io so dove bussare… quindi se tu mi tieni esterno ti dà vantaggio, se tu mi immischi… dopo che mi hai immischiato e mi hai bruciato… è finita”. Nel dialogo spiegava a Giuseppe Strangio che, in relazione alla funzione che all’epoca rivestiva all’ufficio delle Dogane di Piacenza, avrebbe dovuto cercare di mantenere un certo distacco da Salvatore (per gli inquirenti Salvatore Grande Aracri) perché questi, come il padre Francesco, era controllato dalle forze dell’ordine. Sarebbe quindi stato più utile per la consorteria, ricapitola il gip, che Caruso non apparisse all’esterno come un associato, “al fine di poter agire nell’interesse del sodalizio con più efficacia”. “Ultimamente – si legge nella conversazione di Caruso, intercettata – Salvatore stesso (sottinteso: mi dice) ‘stai a casa, lasciami stare, vediamoci poco’. Perché? Perché è giusto che sia così… nel senso che io dal di fuori se ti posso dare una mano te la do, compà, perché al di fuori mi posso muovere… guardo, dico, se c’è un problema, dico: ‘stai attento’. Altrimenti, dopo che si viene ‘bruciati’, “la gente ti chiude le porte, la gente mi chiude le porte… che vuoi da me… se tu sei bruciato non ti vuole… hai capito quello è il problema… quindi allora se tu ci sai stare è così… loro invece a tutti i cani e i porci è andato a dire che io riuscivo… che a Piacenza io riuscivo a fare i libretti, le cose”.

In un altro passaggio delle intercettazioni parla con il fratello Albino, anche lui arrestato, e si riferisce al suo rapporto con il figlio del boss Grande Aracri: “Io con Salvatore gli parlo chiaro, gli dico… Salvatò, non la dobbiamo affogare sta azienda, dobbiamo cercare di pigliare la minna e succhiare o no?”. Secondo il gip Alberto Ziroldi, Caruso con quelle parole stava “illustrando in modo assolutamente genuino quale fosse il reale intento e scopo dell’organizzazione criminale nell’aiutare la società Riso Roncaia Spa“. In un altro passaggio dell’ordinanza, il giudice sottolinea come i fratelli Caruso abbiano fornito “in più occasioni la confessione stragiudiziale della loro appartenenza al sodalizio criminoso, comportandosi di conseguenza”.

Chi è Caruso: politico noto a Piacenza – Caruso è un politico molto noto a Piacenza, dove da anni milita nella destra locale. Consigliere comunale d’opposizione dal 2002 al 2012 per Alleanza Nazionale prima e poi per il Popolo delle Libertà, è quindi entrato in Fratelli d’Italia. Presente a tutte le iniziative di partito, è uno dei volti più noti di Fratelli d’Italia, che oggi lo ha sollevato da ogni incarico. Il consigliere comunale abita a Piacenza da più di 30 anni. Nel suo curriculum impieghi come consulente del lavoro, revisore dei conti, analista programmatore, infine dipendente dell’Amministrazione delle Dogane.  Alle elezioni comunali del 2017, in cui poi vinse il centrodestra con l’attuale amministrazione Barbieri, ottenne 155 preferenze che gli permisero l’ingresso in consiglio comunale e di essere proposto da Fdi, che aveva ricevuto in giunta un solo assessore, come candidato alla presidenza del consiglio comunale. I fatti che gli vengono contestati risalgono a un periodo precedente a questa elezione.

Operazione Grimilde dal nome della sindrome “di chi non riesce a guardarsi allo specchio”: “Perplessi su come l’Emilia non riesca a superare queste cose”
Illustrando i dettagli dell’operazione, nel corso della conferenza stampa a Bologna, il responsabile della Direzione centrale anticrimine (Dac) della Polizia Francesco Messina ha fatto alcune considerazione anche sul contesto generale emiliano e sulle difficoltà della società civile a prendere coscienza della gravità del radicamento della ‘ndrangheta sul territorio: “C’è qualche perplessità”, ha dichiarato, “si fa un po’ fatica da addetti ai lavori a capire come, in un’area come questa dove c’è un grande senso civico e una diffusa cultura della legalità, queste cose non si riescano a superare. Per questo abbiamo chiamato l’operazione ‘Grimilde’, con riferimento alla sindrome di Grimilde che non ammette le sue imperfezioni e non si guarda allo specchio“.

La bocciofila del boss – L’associazione criminale, ha spiegato poi il capo della squadra Mobile di Bologna, Luca Armeni, “nel momento in cui non riusciva ad imporsi passava all’intervento ‘militare'”. Come quando dopo aver acquistato una bocciofila a Reggio Emilia, con pizzeria annessa, ha cominciato a minacciare il proprietario di un ristorante concorrente: “Devi andare via, sennò ti ammazziamo”. L’associazione, che secondo gli investigatori era guidata da Francesco Grande Aracri e dai figli, “aveva creato anche una società per costruire 350 villette in Belgio“, a Bruxelles. “A Francesco Grande Aracri era stato proposto questo affare – ha spiegato Armeni – e allora decide di assumere operai pagandoli dai 3 ai 5 euro l’ora, senza giorni di riposo. Questo sottolinea la loro mancanza di scrupoli”.

Fratelli d’Italia espelle Caruso. La presidente Meloni: “Ci costituiremo parte civile”
Fdi e la presidente Giorgia Meloni hanno preso le distanze dal loro esponente finito agli arresti. “Il coinvolgimento di Giuseppe Caruso, anche se non legato alla attività politica ma al suo ruolo di funzionario dell’Agenzia delle Dogane che fa capo al Ministero dell’Economia, ci lascia sconcertati”, si legge in una nota. “Confidiamo nel lavoro degli inquirenti, e auspichiamo che Caruso dimostri la sua totale estraneità in questa vergognosa vicenda. Ribadiamo con assoluta fermezza che in Fratelli d’Italia non c’è stato, non c’è e non ci sarà mai spazio per nessuna mafia e per noi, come noto, chi fa politica a destra e tradisce l’Italia merita una condanna doppia. Anche per questo Fratelli d’Italia è pronta a costituirsi parte civile nel processo per difendere la sua immagine e la sua onorabilità. Finché non sarà chiarita la sua posizione, Giuseppe Caruso è sollevato da ogni incarico e non può essere più membro di Fratelli d’Italia”.

Cafiero: “Ndrangheta al Nord presente in tutte le Regioni” –“La ‘Ndrangheta è infiltrata in numerosissimi Comuni del nord, è presente in tutte le regioni. È evidente che la politica regionale e comunale deve muoversi per impedire che le organizzazioni mafiose continuino a infiltrarsi sovvertendo il sistema economico e per consentire alle imprese sane di lavorare perché laddove c’è mafia non ci sono lavoro e sviluppo”, dice il procuratore nazionale Antimafia, Federico Cafiero De Raho. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, è stato trai primi a commentare l’operazione: “Nessuna tregua e nessuna tolleranza per i boss, avanti tutta contro i clan”, ha dichiarato. I parlamentari emiliani del M5s hanno attaccato: “Gli ‘struzzi’ che negano la gravità della ‘ndrangheta sono serviti. Chi come l’ex sindaco di Brescello Marcello Coffrini definiva nel 2014 Francesco Grande Aracri come ‘uno composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello’ oggi ha avuto la risposta”. Per l’eurodeputata M5s Sabrina Pignedoli: “L’operazione Grimilde mette in luce i rapporti tra incestuosi fra ‘ndrangheta e politica”. Il presidente della Regione Stefano Bonacini ha invece commentato: “Via le mafie dall’Emilia-Romagna. Ci battiamo ogni giorno affinché cresca la coscienza civile e la cittadinanza responsabile, per non lasciare spazi di alcun tipo alla criminalità organizzata. E collaboriamo con le prefetture, gli inquirenti e le forze dell’ordine, impegnati in un lavoro straordinario ogni giorno, come hanno dimostrato anche oggi, facendo fronte comune”.

‘Ndrangheta Emilia, procuratore di Bologna: “Politico di FdI coinvolto a pieno titolo nell’associazione criminale”

Il Fatto Quotidiano - VIDEO ALL'INTERNO -

Conferenza stampa nella questura di Bologna sull’operazione della polizia denominata ‘Grimilde’ per la quale sono scattati sedici arresti tra cui il boss Francesco Grande Aracri e i figli Salvatore e Paolo. C’è anche il presidente del Consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso, tra i destinatari delle misure contro presunti appartenenti alle famiglie di ‘ndrangheta legate ai Grande Aracri. Caruso, secondo gli investigatori della Polizia, sarebbe parte integrante dell’organizzazione criminale che operava tra le province di Reggio Emilia, Parma e Piacenza. Nelle immagini, alcuni momenti degli interventi del procuratore di Bologna Giuseppe Amato e del capo della direzione centrale anticrimine, Francesco Messina.

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mercoledì 26 giugno 2019

‘Ndrangheta, le mani del clan Grande Aracri sul riso mantovano: “Truffa all’Unione europea da 7 milioni di euro”

Il Fatto Quotidiano - di Giuseppe Pipitone

Nell'ultima inchiesta anti 'ndrangheta della procura di Bologna c'è anche la storia della Riso Roncaia di Castelberforte, in provincia di Mantova. In un momento di difficoltà si era rivolta Giuseppe Caruso, il presidente del consiglio comunale di Piacenza, finito agli arresti con l'accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Nelle carte gli indagati riferiscono di aver chiesto aiuto all'ex ad di Unicredit Ghizzoni (non indagato). Citato anche l'ex europarlantare del Pd Pirillo.

La “minna” da succhiare era un’azienda storica: vendeva riso da più di duecento anni. Negli ultimi tempi, però, era in difficoltà finanziarie. Ed è per questo motivo che si era rivolta a Giuseppe Caruso, il presidente del consiglio comunale di Piacenza, finito agli arresti con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso. Nell’ultima inchiesta anti ‘ndrangheta della procura di Bologna c’è anche la storia della Riso Roncaia di Castelberforte, in provincia di Mantova. Nata nel lontano 1790, nel 2015 si era trovata con i conti in rosso. E i proprietari avevano avuto un’idea: farsi aiutare da Caruso, esponente di Fratelli d’Italia e dipendente dell’Agenzia delle Dogane, accusato di essere un uomo agli ordini dei Grande Aracri, il potente clan di ‘ndrangheta originario di Cutro che da decenni ha messo radici in Emilia Romagna. Da quel momento gli investigatori documentano i legami tra la storica società e gli uomini del clan. Intercettazioni in cui gli indagati citano anche il nome Federico Ghizzoni, all’epoca amministratore delegato di Unicredit. E che ricostruiscono come gli uomini della cosca fossero riusciti a truffare quasi sette milioni di finanziamenti europei all’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura. Per questo motivo Massimo Scotti e Claudio Roncaia sono indagati insieme ai fratelli Giuseppe e Albino Caruso per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche. Roncaia è titolare dell’azienda, Scotti ne è l’amministratore delegato: è cugino del patròn del Riso Scotti, il noto “dottor Scotti” della famosa pubblicità televisiva. Ma andiamo con ordine.

L’intercettazione: “Dobbiamo pigliare la minna e succhiare”-  Le vicende che portano le mani dei clan sul riso mantovano per il giudice Alberto Ziroli assumono “rilevanza centrale nell’economia della presente indagine, poiché costituiscono il terreno sul quale si è misurata la cifra criminale del sodalizio declinata sia sotto il profilo della capacità di comporre transattivamente contenziosi secondo le regole tipiche delle consorterie criminali, sia sotto quello – affatto peculiare alla cellula emiliana – della capacità di condizionamento di un’impresa in una situazione di difficoltà finanziaria, in una logica chiaramente proiettata a relazionare la protezione concessa al conseguimento del massimo profitto economico consentito”. A spiegare come intendeva gestire i rapporti con la Riso Roncaia è lo stesso Caruso, intercettato: “Io con Salvatore (il figlio di Francesco Grande Aracri ndr) gli parlo chiaro, gli dico: Salvato’, noi non la dobbiamo affogare sta azienda, dobbiamo cercare di pigliare la minna e succhiare o no?“.

L’incontro tra i manager i boss – Ma come mai l’antica società specializzata nella produzione di riso si era affidata ai Grande Aracri? Sono le intercettazioni a raccontare come Salvatore Grande Aracri avesse introdotto i Roncaia e Scotti agli altri esponenti del clan tramite lo zio Francesco Lerose, detto zio Ciccio. È il 2015 quando i protagonisti di questa storia s’incontrano da Cibus, la fiera alimentare organizzata a Parma ogni anno.  “Allora queslo discorso è nato quando al Cibus a Parma, zio Franco glielo ha fatto conoscere … ci siamo seduti e abbiamo preso l’aperitivo con loro, c‘era Scotti e c ‘era coso … Ricky e Zio Franco ha presentato a mio fratello, a me, a mio fratello dicendo insomma che… se avete bisogno quindi c ‘era pure Salvatore… eravamo Salvatore, Franco io e lui e c ‘era pure  Gennarino, te lo ricordi Gennarino”, dice Albino Caruso, fratello di Salvatore. Tutto comincia quando la riseria inizia ad avere problemi legati ai debiti e chiede aiuto ai fratelli Caruso. I quali – come ricostruisce il giudice nell’ordinanza di custodia cautelare –  “si erano immediatamente attivati per contattare un professionista, il quale era riuscito a far ‘togliere‘ i Roncaia dalla cosiddetta ‘centrale rischi“.

“L’angelo in paradiso”: l’ex ad di Unicredit – In quella vicenda spunta anche quello che gli investigatori definiscono un “angelo in paradiso“, citato dagli indagati: sarebbe intervenuto per tamponare i problemi economici dei Roncaia. Di chi si tratta? Sono le intercettazioni a ricostruirlo. Il 3 giugno del 2015 Caruso parla con Roncaia e si vanta ddelle sue entrature: “Hai visto come ci muoviamo? Sanno chi ha chiamato … di chi sei amico. Con l’Unicredit abbiamo risolto, stiamo per firmare un accordo 50% quello  …siamo andati con  è andato…da Ghizzoni e quello l’abbiamo risolto”. Per gli investigatori “si comprendeva il personaggio intervenuto per risolvere le problematiche di Roncaia era l’allora amministratore delegato di Unicredit Francesco Ghizzoni (in realtà si chiama Federico ndr)”.  Il nome dell’ex numero uno di Unicredit viene citato anche da un altro dei Roncaia, Riccardo. “La pratica la mandarono via subito dalla città di Mantova, la mandarono a Milano, da Milano a Monza …quella siamo riusciti solo a prenderla perché l’amministratore delegato, Ghizzoni di Piacenza…siamo andati a casa sua…ci manda una persona che lo conosceva…in due giorni l’ha risolta”. Anche l’ad Scotti fa il nome dell’ex numero uno dell’istituto di credito di piazza Gae Aulenti a Milano: “È stato Ghizzoni ha fatto invenire l’ufficio legale di Unicredit che ha quindi formulato una richiesta alla quale loro (inteso Roncaia) avrebbe aderito…con l’ufficio legale, loro han determinato e han detto… guardale noi per chiudere vogliamo 600.000, aahh noi abbiam detto va bene tido 600.000 … chiuso, basta fine del gioco”. Ghizzoni, piacentino, non è in indagato. Secondo gli investigatori è possibile che le persone intercettate abbiano millantato di averlo conosciuto e incontrato.

La truffa sui fondi Ue per il riso ai poveri – Gli uomini dei Grande Aracri si muovono anche su un altro fronte: si attivano per garantire alla Riso Roncaia il finanziamento ottenuto dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura dell’Unione europea. L’azienda del Mantovano aveva vinto un appalto per fornire riso – destinato ad aiutare gli indigenti – in cambio di 6 milioni e 800mila euro di fondi stanziati da Bruxelles. Problema: se l’azienda non avesse consegnato determinate quote di riso entro certe scadenze temporali, avrebbe dovuto pagare penali. E soprattutto non avrebbe incassato quanto dovuto. Era proprio il caso della società di Mantova, in difficoltà con le banche e dunque anche con i fornitori. Per questo motivo interviene Caruso. Il politico appena cacciato da Fratelli d’Italia, si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, individuava “l’obiettivo da perseguire nel contatto con un soggetto che, successivamente, si sarebbe appreso identificarsi in Mario Pirillo“.  

L’aiuto dell’ex europarlamentare del Pd – Chi è Mario Pirillo? Sono sempre gli investigatori a riferire che è  “giornalista e politico del Partito Democratico (dal 2007), ex vice Presidente della Regione Calabria (dal 1995 al 1998), ex assessore regionale all’agricoltura in Calabria (sino al 2009), ex europarlamentare della VII Legislatura (2009-20 14)”. Un politico di peso, dunque, che tra il 2006 e il 2009 era stato vicepresidente dell’Agea. Per parlare con Pirillo, le indagini documentano come Caruso sia andato direttamente in Calabria. “Il tema ricorrente dei contatti con il Pirillo, emergente a più riprese ed in modo inequivoco, era quello di far ottenere a Riso Roncaia una proroga della data di consegna della fornitura di cereali prevista nel bando”, annota il giudice. Il 24 luglio del 2015, Caruso consegna a mano a Pirillo “il carteggio , ossia il verbale attestante la produzione del 5% del riso e la richiesta di proroga”. È quello che gli investigatori definiscono “l’attività di lobbing di Caruso”. Un’attività che interessa anche ai Grande Aracri, con i quali “i due Caruso non mancavano di relazionare”. La vicenda si conclude positivamente perché “in un periodo che va dal settembre al dicembre 2015, si rilevavano degli accrediti sul conto della Riso Roncaia acceso presso la Banca Popolare di Sondrio, derivanti dall’Agea, pari ad euro 7 milioni e 69mila, segno evidente che tutti gli sforzi prodotti avevano portato il risultato sperato”. La “minna”da succhiare era salva.

'Ndrangheta in Emilia: 16 arresti con l’operazione Grimilde. Ma al mosaico mancano ancora tasselli importanti'

Articolo 21 di Sabrina Pignedoli

Pensare che l’operazione Aemilia avesse risolto la questione delle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Emilia era utopico: il territorio è troppo ricco perché le cosche che vi sono insediate possano lasciarlo facilmente. E infatti ieri è scattata l’operazione Grimilde, che ha portato all’arresto di 16 persone, a cui si aggiungono altri 64 indagati. La polizia, con lo Sco – Servizio centrale operativo e le questure territoriali di Bologna, Reggio Emilia, Parma e Piacenza, ha effettuato anche una settantina di perquisizioni, molte delle quali a Brescello, il paese di Peppone e don Camillo in provincia di Reggio Emilia, primo comune della regione Emilia Romagna sciolto per il rischio di condizionamenti da parte della criminalità organizzata. 

Quello che emerge in questa nuova operazione, che può essere considerata come una sorta di sequel di Aemilia, sebbene con sue peculiarità, è la rete di relazioni su cui la cosca emiliana poteva contare. Relazioni che mostrano in maniera molto chiara i meccanismi di infiltrazione da parte della ‘ndrangheta nel tessuto economico e sociale del territorio. Il caso più eclatante è quello legato all’arresto del presidente del Consiglio comunale di Piacenza, Giuseppe Caruso, esponente di Fratelli d’Italia e prima dipendente dell’Agenzia della Dogane. Su di lui pende anche la pesante accusa di far parte dell’associazione mafiosa: secondo gli inquirenti non solo partecipava ai summit della consorteria, ma “metteva a disposizione le prerogative, i rapporti professionali e amicali” per allargare “l’espansione della cosca nel sistema economico emiliano”. 

Le intercettazioni che, al riguardo, vengono riportate nell’ordinanza di custodia cautelare sono emblematiche. “Perché io ho mille amicizie – si vanta Caruso – da tutte le parti, bancari, oleifici, industriali, tutto quello che vuoi. Quindi io so dove bussare”. Il politico, secondo le accuse che dovranno poi essere valiate in sede di giudizio, sarebbe anche intervenuto in una questione relativa all’erogazione di fondi dell’Unione Europea per l’agricoltura. Inoltre, in qualità di dipendente dell’Agenzia delle Dogane, avrebbe ottenuto compensi non dovuti per far entrare in modo illecito merce proveniente dalla Cina, riducendo i costi per la società importatrice. 

Altri arresti importanti sono quelli di Francesco Grande Aracri e del figlio Salvatore.  Il primo, fratello del boss di Cutro, Nicolino Grande Aracri, era già stato condannato a 3 anni e 6 mesi per associazione mafiosa. Nonostante ciò, l’allora sindaco Marcello Coffrini (Pd) lo aveva definito “uno composto, educato, che ha sempre vissuto a basso livello”. Parole che vengono riportante anche negli atti di questa ultima operazione, dove si legge che “l’ex sindaco di Brescello Marcello Coffrini, la cui giunta venne sciolta con provvedimento presidenziale per infiltrazioni mafiose, e ottimo sponsor di Francesco Grande Aracri, lo definisce persone ‘gentile ed educata’”. 

Salvatore Grande Aracri, a sua volta, aveva partecipato alla manifestazione in piazza a Brescello per sostenere lo stesso Coffrini, dopo che erano state chiese le sue dimissioni a seguito delle sue dichiarazioni sul boss. Ma del resto l’allora sindaco – non indagato – aveva riferito che Brescello non è un paese con problemi di criminalità organizzata e che la “storia della ‘Ndrangheta” è un “leitmotiv”.  Chissà se questa operazione servirà a fargli cambiare idea. Fatto sta che anche il padre, Ermes Coffrini, che a Brescello è stato sindaco per 19 anni, fino al 2004, non ha mai visto Francesco Grande Aracri come una persona controindicata. Tanto che, oltre a vantarsi di averlo assunto per i lavori edili nella sua abitazione, ne ha anche curato la difesa davanti al tribunale amministrativo dal 2002 al 2006, nonostante nel 2003 Francesco Grande Aracri fosse stato coinvolto nell’operazione Edilpiovra della Dda di Bologna. Del resto non è proibito essere contemporaneamente sindaco di un paese e difendere un uomo accusato – e poi condannato in via definitiva – per associazione  mafiosa che vive in quello stesso paese. Casomai è una questione di opportunità politica. 

Nell’operazione Grimilde, viene  fatta luce anche sulla vicenda relativa al lancio di sassi contro la troupe della Rai che aveva come ‘colpa’ solo quella di voler raccontare chi era Francesco Grande Aracri e come la ‘ndrangheta si fosse radicata al Nord. In quell’occasione, Salvatore Grande Aracri, dopo aver allontanato con frasi minacciose i giornalisti, avrebbe afferrato un sasso lanciandolo contro l’auto della troupe e rompendo il parabrezza. Ora è accusato di danneggiamento e, insieme al padre e alla sorella Rosita, anche di aver denunciato falsamente i giornalisti Rai, dicendo che si erano inventati l’aggressione. 

Nelle indagini portate ieri alla luce dalla polizia e coordinate dalla Dda di Bologna, poi, emergono altri importanti elementi che mostrano l’importante rete relazionale che la cosca Grande Aracri era riuscita a tessere sul territorio emiliano. Tra gli indagati, infatti, c’è anche un ufficiale giudiziario del tribunale di Reggio Emilia, che avrebbe ritardato un’esecuzione di sfratto in una discoteca permettendo a Salvatore Grande Aracri di continuare l’attività e, quindi, i guadagni. Indagato pure un ex consigliere comunale di An di Reggio Emilia che avrebbe fatto da prestanome. Ma quello che è più impressionante, sono i tanti, tantissimi cognomi emiliani doc che appaiono nell’ordinanza e che sono indagati perché, per soldi, si sono messi a disposizione della cosca per le intestazioni fittizie di conti corrente, società, beni mobili e immobili. Alcuni, addirittura, hanno acceso finanziamenti in banca, poi messi a disposizione del boss Francesco Grande Aracri nel momento in cui si trovava in difficoltà per il sequestrato preventivo del patrimonio.  Oltre ai beni che sono ora stati confiscati, la famiglia del boss gestiva molteplici e variegate attività che vanno dalle discoteche, ai bar; dagli stabilimenti balneari, alle imprese attive nel settore dell’edilizia.

L’operazione Grimilde ha inserito un tassello significativo nella ricostruzione del quadro sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Emilia, ma mancano ancora tessere importanti che arriveranno dal prosieguo dell’attività di indagine. 

giovedì 27 giugno 2019

 

‘Ndrangheta in Emilia, il caporalato del clan: operai inviati a Bruxelles. “Paghe da fame e un terzo dei soldi finiva ai boss”

Il Fatto Quotidiano - di Paolo Bonacini

L'ultima inchiesta contro i Grande Aracri ricostruisce le vicende legate all’intermediazione di manodopera. Sono la fotocopia di quanto emerso in Aemilia sulle attività di ricostruzione post terremoto nel 2012. Per i canteri del Belgio, dove operavano società di costruzione albanesi, partivano decine di lavoratori disoccupati e bisognosi, reclutati in Emilia Romagna nel 2017 e formalmente assunti da una impresa di Firenze che in realtà era solo un paravento

L’inchiesta Grimilde è come una dependance di Aemilia, il maxi processo alla ndrangheta in Nord Italia. Una succursale che aveva sede a Brescello, chiusa dagli arresti ottenuti dalla pm di Bologna, Beatrice Ronchi. Settantasei gli indagati (13 nella sola Brescello), 16 custodie cautelari, 13 persone acusete di 416 bis, appartenenza ad associazione criminale di stampo mafioso. Una famiglia sotto accusa, quella di Francesco Grande Aracri, della moglie Santina Pucci, dei figli Paolo, Rosita e Salvatore, detto Calamaro e vero reggente delle attività esterne dopo che la nomea del padre era stata compromessa dalla condanna in Edilpiovra. L’uomo che già secondo Aemilia era il vero proprietario dei due locali più “in” di Reggio Emilia, qualche tempo fa, sul fronte discoteche giovanili: il Los Angeles a Quattro Castella e l’Italghisa in città. Anche Carmelina, moglie di Salvatore e con lui residente a Brescello, è indagata, e assieme a lei altri quattro membri della famiglia Passafaro che abita a Viadana.

Erano loro, con illustri compagni di avventura, a mandare avanti le attività di ‘ndrangheta dalla dependance di Brescello dopo il gennaio 2015, con il consueto corredo di intestazioni fittizie, minacce e intimidazioni, falsi e truffe, estorsioni e recupero crediti, furti e sfruttamento dei lavoratori. Carpentieri e muratori in particolare, reclutati dal capofamiglia Francesco Grande Aracri che insegnava al figlio Salvatore come si utilizza al meglio il caporalato e andava personalmente a Bruxelles per gestire le attività che varcavano i confini nazionali.

Le vicende legate all’intermediazione di manodopera sono la fotocopia di quanto emerso in Aemilia sulle attività di ricostruzione post terremoto nel 2012. Per i canteri del Belgio, dove operavano società di costruzione albanesi, partivano decine di lavoratori disoccupati e bisognosi, reclutati in Emilia Romagna nel 2017 e formalmente assunti da una impresa di Firenze che in realtà era solo un paravento. I collegamenti con il Belgio erano garantiti da Mario Timpano, indagato residente a Dilbeek nel paese del nord, mentre ad attendere la manovalanza a Bruxelles e a smistarla nei cantieri era Davide Gaspari, nato in Germania e residente a Viadana di Mantova, finito ora agli arresti domiciliari.

Un terzo del compenso per il lavoro prestato finiva nelle tasche della ‘ndrangheta, mentre i carpentieri e i muratori ottenevano pagamenti da fame. Un caso per tutti: l’operaio Francesco Sciano che ha lavorato per 100 ore ricevendo 675 euro in contanti (6,75 euro l’ora) senza busta paga, senza indennità, senza contributi, pagandosi da solo il vitto nelle settimane dal 25 marzo al 13 aprile 2017. Peggio degli emigranti italiani nelle miniere del Belgio settant’anni fa.

L’insieme dei reati di Grimilde è stato commesso tra il 2004 e il 2018, con particolare intensità d’azione negli ultimi quattro anni, quando gli uomini liberi della cosca coprivano anche i vuoti lasciato da quelli in galera. Quando in molti a Reggio Emilia si illudevano che tutto fosse finito. Il caso più eclatante è quello riguardante Giuseppe Caruso, dipendente dell’Ufficio delle Dogane di Piacenza, accusato del 416 bis assieme al fratello Albino e capace (a proprio dire) di muovere mari e monti per gli interessi della cosca. Giuseppe Caruso è anche presidente del Consiglio comunale di Piacenza, in quota a Fratelli d’Italia: Giorgia Meloni ne ha annunciato ieri l’espulsione dal partito del presidente arrestato.

Anche l’ex presidente del Consiglio Comunale di Parma Giovanni Paolo Bernini (Forza Italia) fu accusato in Aemilia di concorso esterno all’associazione mafiosa, ma il reato venne riqualificato ed estinto per avvenuta prescrizione. Anche il capogruppo di Forza Italia in Consiglio Comunale a Reggio Emilia, Giuseppe Pagliani, è ancora sotto processo in Aemilia, dopo l’assoluzione di primo grado, la condanna in appello e la decisione della Cassazione di rinviarlo ad un nuovo appello. E infine l’11 luglio prossimo, tra pochi giorni, il Gup di Bologna si pronuncerà sulla richiesta di rinvio a giudizio presentata dalla procura nei confronti di 11 persone, tra cui funzionari pubblici dello Stato, accusati di violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, con l’aggravante del metodo mafioso, in concorso con l’allora senatore Pdl Carlo Giovanardi, ex componente della commissione parlamentare antimafia. Il tutto all’indomani del terremoto, per ottenere la riammissione nella white list della Bianchini Costruzioni srl. La stimata impresa che – per l’accusa – utilizzava manodopera fornita dalla ‘ndrangheta.

Un’altra società che casca nelle mani dei Grande Aracri di Brescello, con un ruolo in questo caso giocato anche dal capo dei capi Nicolino, è la azienda Vigna Dogarina srl di Treviso, alla quale i Grande Aracri portano via tonnellate di vino per centinaia di migliaia di euro che non verranno mai pagati, mostrando credenziali false di false o vere società. In un caso presentano alla Dogarina una fideiussione per tre milioni di euro apparentemente emesso dalla Banca Barclays nel 2013 e si portano via un milione di bottiglie di prosecco. Peccato che la fideiussione fosse falsa.

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venerdì 28 giugno 2019

Quando è successo che la ’ndrangheta si è presa un pezzo di Emilia?

POST - (ANSA/BARACCHI)

Una nuova operazione di polizia ha riportato l'attenzione su Brescello, il paesino dei film di Peppone e Don Camillo, sciolto per mafia nel 2016

Brescello è una piccola cittadina dell’Emilia affacciata sulle rive del Po, tra Parma e Reggio Emilia: fino a pochi anni fa era famosa perché, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, fu il set dei cinque film sul prete Don Camillo e sul sindaco comunista Peppone, tratti dai racconti e dai romanzi dello scrittore umoristico Giovanni Guareschi. Negli ultimi tempi, però, Brescello ha acquisito anche una fama più sinistra. Nel 2016, infatti, è divenuta il primo e finora unico comune della provincia di Reggio Emilia sciolto per infiltrazioni mafiose. Questa settimana una nuova operazione antimafia ha portato all’arresto di 16 persone e a decine di perquisizioni. Tra gli altri, la polizia ha portato in carcere anche Francesco Grande Aracri, ritenuto il capo della cosca calabrese che da Cutro, in provincia di Crotone, si è insediata a Brescello, influenzandone tutte le principali vicende degli ultimi anni.

Da oltre un quindicennio, dopo un iniziale periodo di reticenza, magistratura, stampa e accademici si occupano sempre più spesso delle attività e delle infiltrazioni della criminalità organizzata meridionale nelle regioni del Nord, come Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. Le indaginiCrimine e Infinito“, per esempio, iniziate nel 2003, avevano portato all’arresto e poi alla condanna di decine di persone tra Lombardia e Calabria (nel corso delle indagini venne anche filmato un rituale di iniziazione di alcuni ‘ndranghetisti, un evento piuttosto raro).

“Aemilia”, la più grande inchiesta per mafia del Nord Italia, portò nel 2015 all’arresto di 160 persone tra Calabria ed Emilia. Tra loro c’erano gli stessi esponenti della famiglia Grande Aracri arrestati nuovamente questa settimana e che, secondo gli investigatori, era riusciti a infiltrarsi nel tessuto sociale di Brescello, arrivando a influenzare direttamente il sindaco, la sua famiglia e molti professionisti del paese.

Indagini e ricerche hanno dimostrato che in questi luoghi la ‘ndrangheta e la camorra puntano soprattutto a riciclare i proventi del traffico di droga in attività legali, come il settore delle costruzioni e in particolare quello del movimento terra. Spesso però le famiglie che si trovano sul posto intraprendono anche attività criminali più tradizionali, come il traffico di droga, l’usura e l’estorsione.

Brescello è un caso allo stesso tempo tipico e inusuale di questo tipo di insediamento, e anche per questo è stato a lungo studiato. Lo scorso autunno, per esempio, è stato pubblicato un lungo e documentato studio realizzato dal Cross, l’osservatorio sulla criminalità organizzata dell’Università di Milano, commissionato da Cgil Reggio Emilia, Anpi Reggio Emilia e Auser Reggio Emilia e coordinato dalla professoressa Ombretta Ingrascì.

Come in molti altri centri del Nord, la presenza delle organizzazioni criminali meridionali a Brescello iniziò negli anni Ottanta, con il “soggiorno obbligatodi un boss della ‘ndrangheta in un paese vicino. Introdotto nel 1965 - NOTA DELLE AGENDE ROSSE: LA LEGGE DEL SOGGIORNO OBBLIGATORIO E' STATA EMANATA IL 27 DICEMBRE 1956 - , il soggiorno obbligato era una misura pensata per cercare di rescindere i legami tra boss criminali e il tessuto sociale dal quale provenivano. Le indagini successive di magistratura e commissioni parlamentari antimafia hanno dimostrato però che in molti casi questa strategia fallì: e finì anzi con l’aiutare le organizzazioni criminali a espandersi in territori diversi da quelli del loro tradizionale insediamento, spesso sfruttando l’aiuto dei loro compaesani, arrivati negli stessi anni in cerca di lavoro nelle fabbriche del Nord.

Il “soggiornante obbligato” che diede inizio all’insediamento criminale nella zona di Brescello si chiamava Antonino (n.a.r. Antonio) Dragone, boss della cosca di Cutro e inviato nel 1982 a Quattro Castella, un piccolo paese a trenta chilometri da Brescello. Poco dopo arrivò nella zona anche la famiglia di uno dei suoi principali collaboratori, Nicolino Grande Aracri, il fratello di Francesco, che negli anni successivi sarebbe divenuto una sorta di “padrone della città”. In breve, a Brescello si sviluppò una fiorente comunità di emigrati calabresi: la zona dove risiedevano venne scherzosamente ribattezzata Cutrello, dalla fusione dei nomi dei comuni “Cutro” e “Brescello”.

Secondo i ricercatori dell’Università di Milano, quando arrivarono in Emilia i familiari di Grande Aracri erano poveri e in cerca di lavoro nel settore dell’edilizia. Dormivano in sei nello stesso appartamento e giravano per le strade con vecchie automobili e furgoni di seconda mano. Le loro fortune aumentarono gradualmente nel corso degli anni, fino a che, nei primi anni Duemila, divennero i più importanti imprenditori della città, amici personali della famiglia del sindaco e considerati dei benefattori da molti dei suoi abitanti.

Nel frattempo era cresciuta anche la loro statura criminale. Da semplici luogotenenti del boss Dragone, i Grande Aracri divennero i capi della cosca di Cutro. Approfittando del fatto che il boss si trovava in carcere, alla fine degli anni Novanta lanciarono un’imponente campagna di reclutamento nei confronti degli uomini di Dragone e molti di loro scelsero di cambiare fazione. Quando Dragone e suo figlio furono uccisi in due agguati, rispettivamente nel 2004 e nel 1999, i Grande Aracri divennero i capi assoluti della cosca e Nicolino poté creare il suo personale capitolo locale della ‘ndrangheta.

Tra le principali attività del clan, oltre a quelle legali come l’edilizia, c’erano il traffico di droga, l’estorsione (soprattutto nei confronti di altri imprenditori calabresi) e il controllo degli appalti pubblici, che riuscivano a ottenere grazie ai loro buoni rapporti con la politica locale. Nel controllare Brescello, infatti, i Grande Aracri usarono una mano molto leggera. Consideravano la cittadina la loro nuova casa e, in quanto tale, la trattarono con particolare riguardo. Come spiegò un collaboratore di giustizia, gli ‘ndranghetisti non «sporcano» il territorio dove abitano: evitano di compiere crimini o altre attività che potrebbero destare allarme o preoccupazione tra gli abitanti.

Dragone, invece, non aveva sempre esercitato la stessa cautela. Nel 1992 a Brescello avvenne il primo, e fino a oggi unico, omicidio di ‘ndrangheta. Un immigrato calabrese venne ucciso nella sua abitazione per vendicare un altro omicidio, commesso a Cutro, in Calabria, da un suo parente. In pieno stile ‘ndranghetista gli assassini arrivarono a casa del loro bersaglio travestiti da carabinieri e lo uccisero non appena gli venne aperta la porta.

Da allora Brescello è rimasta una città tranquilla dove non era facile accorgersi della presenza di una potente cosca. I Grande Aracri non taglieggiavano gli imprenditori locali (si limitavano a farlo con i loro conterranei o con quelli di zone distanti dalla cittadina) e cercavano di ingraziarsi la popolazione locale ogni volta che ne avevano occasione. Quando dovevano scegliere professionisti a cui appoggiarsi, per esempio, si affidavano quasi sempre a quelli della zona (l’avvocato e sindaco di Brescello Ermes Coffrini difese in diverse occasioni Francesco Grande Aracri, successore di Nicolino alla guida della cosca). In città molti abitanti ricordano ancora di quando, in occasione di un’alluvione, i Grande Aracri regalarono al comune diversi quintali di sabbia e ghiaia con cui costruire argini temporanei. Nonostante quest’aria di apparente bonomia, diversi giornalisti locali raccontarono successivamente di essere stati minacciati, mentre altri giornalisti furono aggrediti mentre visitavano la zona di “Cutrello”.

In generale, comunque, la strategia basata sul “soft power” ha ripagato la famiglia. Negli ultimi anni a Brescello si sono visti spesso comportamenti che possono ricordare l’omertà dei paesi infiltrati dalla mafia in Sicilia, Campania e nella stessa Calabria. I ricercatori dell’Università di Milano riportano per esempio il brano di un’intervista in cui un cittadino di Brescello dice a proposito di Francesco Grande Aracri: «Io lo saluto tutti i giorni, ma non gli devo dire se è mafioso o non è mafioso. Sarà stato condannato per mafia. Però qui è sempre stato un personaggio come si deve. Nel 2002 quando ci fu l’alluvione qui a Brescello diede 81 bilici di sabbia gratis».

I primi ad accorgersi di quello che stava accadendo a Brescello e nei dintorni furono i magistrati, che iniziarono a occuparsi della cosca con una serie di inchieste a partire dai primi anni Duemila. Nicolino Grande Aracri fu arrestato nel 2001 e due anni dopo fu arrestato suo fratello Francesco, che nel 2008 è stato condannato definitivamente a tre anni e sei mesi per associazione mafiosa. Ma questi arresti e la crescente consapevolezza che nella comunità di emigrati calabresi di Brescello fossero presenti alcuni importanti esponenti della criminalità organizzata non cambiò la situazione in città. Come hanno scritto i ricercatori dell’Università di Milano: «Le modalità non violente di presenza ʼndranghetista sul territorio non hanno provocato allarme sociale, nonostante l’amministrazione e le forze dell’ordine dai primi anni Duemila, se non prima, fossero consapevoli del problema».

Le cose cambiarono rapidamente nel 2014, quando un gruppo di studenti che faceva parte dell’associazione Cortocircuito realizzò un documentario d’inchiesta sulla cosca Grande Aracri. Il pezzo forte del documentario era un’intervista al sindaco Marcello Coffrini, figlio di Ermes, l’ex avvocato di Francesco Grande Aracri. Nel video, il sindaco difende con energia Grande Aracri. «È gentilissimo, è uno molto tranquillo. È molto composto, educato, sempre vissuto a basso livello», sostiene a un certo punto, per poi aggiungere: «Sembra tutto meno che quello che dicono che è».

Il fatto che il sindaco trattasse la famiglia Grande Aracri come «brave persone», nonostante le inchieste della magistratura avessero dimostrato i loro legami con la ‘ndrangheta, spinse la prefettura ad aprire delle indagini nei confronti del comune. In breve si scoprì che diversi esponenti della cosca o vicini alla cosca erano stati inseriti nelle liste elettorali e che tra i dipendenti del comune e gli esponenti della famiglia Grande Aracri esistevano parecchi punti di contatto. La prefettura decise così di nominare una commissione d’accesso, il primo passaggio formale per procedere allo scioglimento di un comune per associazione mafiosa. Sei mesi dopo la nomina della commissione, nel gennaio 2016, Marcello Coffrini si dimise da sindaco. Poco dopo il comune venne sciolto per decreto.

Da allora Brescello è diventato un simbolo delle infiltrazioni della ‘ndrangheta nel Nord Italia, attirando troupe di giornalisti e studiosi da tutto il paese. Molti degli abitanti, tra cui il parroco, ritengono che la città sia stata trattata ingiustamente e che molte delle accuse di connivenza e complicità siano ingiuste. Anche se omertà e complicità oggi appaiono difficili da negare, sembra altrettanto complicato immaginare come una piccola comunità avrebbe potuto reagire all’offensiva di un’organizzazione ricca e potente come la ‘ndrangheta, se non cercando di adattarsi. Come concludono i ricercatori, infatti, la storia di Brescello dimostra prima di tutto «il salto di qualità compiuto dalla ʼndrangheta negli ultimi decenni» e la sua capacità di passare «dalla “semplice” infiltrazione alla piena integrazione con la società dei territori occupati».

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sabato 29 giugno 2019

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domenica 30 giugno 2019

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lunedì 1 luglio 2019

 

Operazione Grimilde. La nuova scossa di terremoto che ha attraversato la regione
di MAFIESOTTOCASA

In dieci punti, la nostra sintesi sull’operazione Grimilde.

1. L’operazione: L’inchiesta Grimilde scoppia il 26 giugno (nota di Agende Rosse: l'operazione Grimilde scoppia fra le 3 e le 4 del mattino del 25 giugno). Il responsabile della Direzione centrale anticrimine (Dac) della Polizia Francesco Messina, durante la conferenza stampa, ha detto: “Abbiamo chiamato l’operazione ‘Grimilde’, con riferimento alla sindrome di Grimilde che non ammette le sue imperfezioni e non si guarda allo specchio“. “Il sodalizio ndranghetistico locale- si legge nell’ordinanza- presenta la fisionomia di una struttura criminale moderna con una una dimensione prettamente affaristica. Il gruppo emiliano è risultato essere in rapporti con quei poteri (politica, informazione, forze dell’ordine) che ne dovrebbero contrastare l’esistenza. Si tratta di un’associazione arricchita dalla presenza di imprenditori mafiosi in grado di raffinare le strategie, aumentare la disponibilità di denaro, la potenza e finanche offrire alla congrega un vestito più presentabile in modo tale da potersi presentare in ambienti che in precedenza apparivano immuni”.

2. I numeri: 76 le persone indagate, 16 quelle arrestate, 13 delle quali accusate di associazione a delinquere di stampo mafioso. 67 le perquisizioni effettuate. 16 le aziende monitorate. 300 gli uomini impiegati nell’operazione e appartenenti alla Polizia di Stato di Bologna in collaborazione con quella di Parma, Reggio Emilia, Piacenza e con il coordinamento del Servizio Centrale Operativo.

3. I reati contestati: associazione a delinquere di stampo mafioso, estorsione, tentata estorsione, trasferimento fraudolento di valori, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, danneggiamento, truffa aggravata dalle finalità mafiose.

4. Il territorio interessato: le province di Reggio Emilia, Piacenza, Parma e Modena.

5. I collaboratori di giustizia: Importanti le dichiarazioni di cinque pentiti: Antonio Valerio, Giuseppe Giglio, Angelo Salvatore Cortese, Salvatore Muto, Giuseppe Liperoti, quest’ultimo genero di Antonio Grande Aracri, fratello del boss Nicolino.

6. La struttura del gruppo: All’interno del sodalizio operano con ruolo di vertice non uno ma alcuni soggetti ciascuno reggente su un determinato territorio. In questo caso, Francesco Grande Aracri (fratello del boss Nicolino) e il figlio Salvatore vengono individuati dagli inquirenti come promotori, capi e organizzatori del clan. A latere, invece, l’altro figlio di Francesco, Paolo Grande Aracri, il quale avrebbe “agito in sinergia con i vertici”.

7. Il professionista: Leonardo Villirillo viene ritenuto dagli inquirenti come il contabile e il commercialista della cosca. “Era lui a gestire gli investimenti e a intestare i beni dei Grande Aracri a prestanome”.

8. Il caporalato: Tra i reati contestati c’è anche quello di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Gli indagati sono Salvatore e Francesco Grande Aracri, Mario Timpano e Davide Gaspari, accusati di “aver reclutato manodopera allo scopo di destinarla al lavoro in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori”. I fatti presi in esame fanno riferimento al 2017, quando si aprono dei cantieri in Belgio, a Bruxelles, per la costruzione di 350 nuovi appartamenti. Titolare dei lavori è una società di costruzione albanesi. I lavoratori, formalmente assunti da una impresa di Firenze (rivelatasi in seguito un semplice paravento), venivano letteralmente sfruttati e sottopagati. Scrivono gli inquirenti: “i quattro indagati hanno agito come intermediari fruttando la manodopera reclutata attraverso la totale o mancata corresponsione di retribuzioni, il mancato pagamento del vitto, dei festivi e dello straordinario effettuato e il mancato versamento dell’indennità di trasferta all’estero. Le modalità di pagamento avevano luogo in contanti o tramite sistema Western Union su carte intestate a soggetti vicini ai Grande Aracri”. Due gli esempi citati dagli inquirenti: “Francesco Sciano riceveva un compenso di 675 euro dopo aver lavorato 100 ore. Samir Bahrini lavorava oltre dieci ore al giorno e riceveva come corrispettivo 250 euro in contanti”.

9. Il politico: Giuseppe Caruso, presidente del consiglio comunale di Piacenza, è stato arrestato insieme al fratello Albino in quanto accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Ritenuto parte integrante del gruppo criminale, i reati contesti nei suoi confronti fanno riferimento al periodo in cui era dipendente dell’agenzia delle Dogane. Secondo il gip, il politico in quota Fratelli d’Italia, “ha un ruolo non secondario nella consorteria“. Il nome dei fratelli Caruso compare soprattutto nella vicenda relativa alla “Riso Roncaia spa”, operazione talmente importante che, si legge nell’ordinanza, “è il terreno sul quale si è misurata la cifra criminale del sodalizio”. Tra le tante fasi, sono due i momenti cruciali: il primo si verifica nel 2015 quando la ditta Roncaia Riso spa ha gravi problemi economici. I gestori dell’azienda si rivolgono ai fratelli Caruso i quali si attivano per risolvere il problema. E’ Massimo Scotti, presidente del consiglio di amministrazione della ditta Roncaia, a dire nel corso di un’intercettazione: “E’ stato Ghizzoni, ha fatto intervenire l’ufficio legale di Unicredit”. Francesco Ghizzoni è l’allora amministratore delegato della Banca. Lo scoglio viene superato, ma la ditta Roncaia si rivolge nuovamente ai fratelli Caruso per risolvere un’altra questione. E’ questo il secondo momento ricostruito dagli inquirenti: l’azienda vince un appalto dal valore di 6 milioni e 800.000 euro, denaro fornito da Agea (Agenzia nazionale per le erogazioni dei contributi europei in agricoltura). L’appalto prevede la consegna del 5% del prodotto in poche settimane, pena il mancato pagamento della prima tanche dal valore di 2 milioni di euro. L’azienda non riesce a portare a termine questa prima fase dei lavori e chiede ancora una volta aiuto ai Caruso. Anche in questo caso il problema viene risolto con una certificazione falsa.

10. Considerazioni finali: l’operazione Grimilde è stata definita come la prosecuzione di Aemilia. Stessi territori presi in considerazione, stessa struttura organizzativa, stesse dinamiche criminali. I Grande Aracri, nelle zone di Parma, Piacenza, Modena e Reggio Emilia, e i loro rapporti con la cosiddetta area grigia. Professionisti, politici e imprenditori che collaborano con la mafia per trarre numerosi benefici, soprattutto in termini economici. Differenti, invece, i reati contestati ai politici. Nel processo Aemilia l’allora consigliere comunale reggiano Giuseppe Pagliani venne accusato di concorso esterno. Assolto in primo grado, condannato a quattro anni in appello, la Cassazione ha adesso deciso di far ripartire il processo. In questo caso, invece, il politico coinvolto è accusato di associazione mafiosa. Giuseppe Caruso, infatti, viene individuato come membro attivo della cosca, e non come semplice concorrente esterno. Molto simili, infine, le dinamiche di sfruttamento dei lavoratori: nel processo Aemilia la vicenda contestata si era svolta a Finale Emilia, all’interno della ditta di Augusto Bianchini (condannato a 9 anni anche per concorso esterno e caporalato). Nell’operazione Grimilde, invece, i fatti presi in esame si sono svolti a Bruxelles. Ultima nota: i reati contestati continuano a essere di matrice economica e questa è la dimostrazione di quanto la mafia emiliana giochi la propria partita su un campo prettamente economico e finanziario.

 

martedì 2 luglio 2019

“Operazione Grimilde”. Padri & figli…
Articolo 21 - di Donato Ungaro

“Questa è una storia di figli e di padri; i padri e di padrini. L’hanno chiamata “Operazione Grimilde”, per sottolineare come non si sia stati capaci di vedere – dopo Aemilia – ciò che era sotto gli occhi di tutti; proprio come la strega di Biancaneve. Ma non è una favola, questa; siamo di fronte alla ‘ndrangheta. Ed è una storia di figli, di padri e di padrini; con quest’ultimo che: “…non disdegnava di interessarsi della politica locale…”.”

Perché nell’ordinanza di Grimilde ricorre spesso la parola padre, così come capita spesso di leggere il termine figlio. Il maggior imputato di tutta la vicenda è Francesco Grande Aracri, già condannato con pena definitiva per associazione di stampo mafioso. Francesco è il padre di altre tre persone arrestate: Salvatore, Paolo e Rosita. Un padre e tre figli, accusati a vario titolo di essere i reggenti della cosca, in uno scambio di ruoli determinato da arresti, visite in carcere e sorveglianza speciale. Ma non basta. Da parte del “padre–padrino” Francesco Grande Aracri ci sarebbe l’interesse – secondo un pentito – a determinare l’elezione del sindaco del paese in cui i Grande Aracri vivono: Brescello.

Francesco è il fratello del più noto Nicolino Grande Aracri, detto manuzza. Ritenuto il capo della cosca che prende il nome dalla famiglia originaria di Cutro, provincia di Crotone, ha allacciato profondissimi legami con Brescello, provincia di Reggio Emilia. Tanto profondi, che lo scorso 25 giugno gli arresti dei Grande Aracri sono stati effettuati proprio a Brescello; il paese di Peppone e don Camillo. Ma gli investimenti  e gli interessi su Brescello sono tali che il proprio “Peppone” Francesco Grande Aracri se lo vuole scegliere. Un paese davvero importante, Brescello.

Un paese che appena 3 anni fa – nel 2016 – vedeva il consiglio comunale sciolto per accertati condizionamenti da parte della criminalità organizzata; primo caso di un’amministrazione commissariata in Emilia Romagna per fatti di mafia. L’accusa scaturiva dopo che il Prefetto aveva inviato la Commissione d’accesso in municipio, per capire come mai il sindaco del paese avesse definito Francesco Grande Aracri una brava persona: educata.

Il sindaco all’epoca era Marcello Coffrini, figlio di Ermes Coffrini, primo cittadino di Brescello per 19 anni. Padre e figlio che si scambiavano la fascia tricolore e la carica di assessore, in una staffetta che supera ogni immaginazione. Una storia amministrativa tramandata di padre in figlio.

Ma non sono queste due le uniche storie di padri & figli della vicenda oggetto di indagine che – giova ricordarlo – vede alcuni dei soggetti citati come semplici imputati, da considerare (tutti) innocenti fino a eventuale condanna definitiva. Ci sono storie di prestanome, come Matteo Pistis che è “…socio formale…” insieme al padre Roberto Pistis di un’attività di fatto riconducibile a Salvatore Grande Aracri. Oppure gli affari dei signori Luigi Muto (figlio) e Santino Muto (padre) che con i Grande Aracri trafficavano in vini pregiati. E ancora Alfonso Diletto (condannato nel ramo bolognese di Aemilia) che spera di far eleggere la figlia Jessica Diletto in consiglio comunale. Si legge infatti nell’ordinanza di Grimilde: “…la circostanza relativa all’attività elettorale si nutre anche dell’interessamento per la candidatura della figlia di Diletto Alfonso, Jessica…”. Padre e figlio sono anche Davide Gaspari e Manuel Gaspari, con papà Davide che era stato incaricato da Salvatore Grande Aracri di seguire un cantiere in Belgio, a Bruxelles; e per questo si faceva accompagnare dal figlio Manuel. Tra gli indagati di quest’ultima operazione antimafia, ci sono anche nomi “nostrani”: come quello di Gabriele Benassi (il quale viene indicato nell’ordinanza come socio di società riconducibili a Salvatore Grande Aracri), che è figlio di quel Carlo Benassi che nell’agosto 2014 – si legge sempre nell’ordinanza – aveva: “…reso dichiarazioni dirette a ridimensionare quanto invece ricostruito dai giornalisti, ciò in piena sintonia con l’allora Sindaco in carica, Marcello COFFRINI…”. Quel Marcello Coffrini che era in carica dalla primavera 2014 fino alle sue dimissioni del gennaio 2016.

Ed eccoli Ermes Coffrini e Marcello Coffrini: padre e figlio, già sindaci di Brescello. E avvocati. Con il primo che difendeva i Grande Aracri davanti al TAR di Catanzaro, per una questione di espropri di terreni. I Coffrini che all’indomani degli arresti per l’operazione Grimilde sono su il Resto del Carlino, dalle cui pagine Marcello spiega: “…sia io che mio papà non siamo mai stati indagati da nessuno, ma purtroppo veniamo associati a questa famiglia…”. Da parte sua, sugli arresti del 25 giugno 2019, Ermes Coffrini dice: “…lo scioglimento del Comune non ha alcun rilievo rispetto a queste vicende…”.

Sono opinioni e come tali vanno doverosamente rispettate, ma non si può non sottolineare che nell’ordinanza dell’Operazione Grimilde, in riferimento all’interrogatorio di un pentito, si può leggere: “… che GRANDE ARACRI Francesco cl. 1954 non disdegnava di interessarsi della politica locale e che, insieme a DILETTO Alfonso avevano raccolto voti per il Sindaco di Brescello, chiarendo di riferirsi al Sindaco in carica al momento dell’arresto di GIGLIO nel gennaio 2015: ha spiegato di aver appreso questa circostanza parlando con DILETTO stesso, BLASCO Gaetano, BOLOGNINO Michele, ma non ha saputo dire nulla in merito a specifici accordi sull’episodio; ha precisato che BOLOGNINO, a seguito dei servizi in tv e degli articoli di stampa sull’elezione del Sindaco di Brescello tramite l’appoggio della ‘Ndrangheta, gli aveva riferito che il Sindaco era stato effettivamente eletto grazie alla raccolta dei voti di DILETTO Alfonso e della famiglia GRANDE ARACRI residente in Emilia, in particolare di GRANDE ARACRI Francesco…”.

E ancora: “…l’ex sindaco di Brescello Marcello COFFRINI, la cui giunta venne sciolta con provvedimento presidenziale per infiltrazioni mafiose, e ottimo sponsor di Francesco GRANDE ARACRI lo definisce persona “gentile ed educata”, tratto probabilmente corrispondente al vero ma che invera la cifra comportamentale cui volutamente ricorre per dissimulare verso l’esterno la propria appartenenza al contesto criminale…”.

Frasi che vogliono dire tutto e non vogliono dire niente: ma nel …gennaio 2015… il sindaco di Brescello era Marcello Coffrini, figlio di Ermes Coffrini.

Se venissero accertate le parole del pentito Giuseppe Giglio, il quadro potrebbe prendere – almeno moralmente – una piega diversa.

Sia per il padre, che per il figlio.

mercoledì 3 luglio 2019

Giuseppe e Albino Caruso trasferiti in penitenziari di massima sicurezza
Il Piacenza - redazione

Giuseppe e Albino Caruso trasferiti in penitenziari di massima sicurezza.

Giuseppe Caruso, l'ex presidente del Consiglio comunale arrestato pochi giorni fa per 'ndrangheta e associazione mafiosa, è stato trasferito nel carcere di Voghera. L'ex consigliere di Fratelli d'Italia, dopo alcuni giorni in isolamento nel carcere piacentino delle Novate dopo l'arresto da parte della Dda di Bologna per i suoi rapporti con la famiglia mafiosa Grande Aracri (nell'interrogatorio di garanzia si era avvalso della facoltà di non rispondere) è stato portato nel carcere lombardo. Anche per il fratello Albino, arrestato nella stessa indagine, è previsto a breve il trasferimento in un carcere di massima sicurezza, probabilmente in Abruzzo.“

Nella foto: Giuseppe e Albino Caruso - da Il Piacenza

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domenica14 luglio 2019

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mercoledì 22 luglio 2019

Infiltrazioni mafiose in Trentino: ecco gli affari della 'ndrangheta fra trasporti, cave e porfido
L'Adige.it

Testimonianze al vaglio della Guardia di Finanza e della magistratura segnalano che, fino a poche settimane fa, Cesare Muto, classe 1980 di Crotone, residente a Gualtieri in provincia di Reggio Emilia, con la sua ditta Overtruck & Logistic snc lavorava in Trentino, nel trasporto di inerti, sabbia, porfido. È stato più volte visto mentre trattava affari con interlocutori locali. All’alba del 25 giugno scorso, nell’ambito dell’operazione Grimilde, il maxi blitz della Polizia contro la ’ndrangheta in Emilia, Cesare Muto e suo fratello Antonio Muto, classe 1971 di Crotone, anch’egli residente in provincia di Reggio Emilia, già in carcere per la condanna nel processo Aemilia, sono finiti di nuovo nella lista dei 76 indagati, di cui 16 arrestati, per una serie di reati tra cui il trasferimento fraudolento di valori con l’aggravante mafiosa.

Se c’era bisogno di una conferma del fatto che nel nord del Paese, Trentino compreso, esiste una «mafia latente» che investe, fa operazioni finanziarie, conquista fette di mercato (l’Adige di ieri) è proprio la vicenda dei fratelli Muto. Che ha già incrociato il Trentino tra il 2009 e il 2011 per l’acquisizione e lo svuotamento di beni dell’azienda Marmirolo Porfidi, un crac da 9 milioni e mezzo di euro (vedi sotto), e lo incrocia di nuovo nella stessa operazione Grimilde, dove entra in ballo, tra le altre società, l’Immobiliare San Francisco di Reggio Emilia di cui era socio anche un altro pregiudicato, Michele Pugliese, a sua volta presente negli anni scorsi in società e attività economiche nel nostro territorio.

L’operazione Grimilde, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Bologna, ha colpito in particolare persone che si ritiene facciano parte o siano collegate con il clan Grande Aracri, cosca della ’ndrangheta crotonese da tempo presente nell’Italia settentrionale e in particolare in Emilia. Ma la particolarità di questo blitz è anche che molti dei reati contestati sono di natura economica e finanziaria, aggravati dall’associazione mafiosa: dall’intestazione fittizia di beni al trasferimento fraudolento di valori. Comincia a riempirsi di riferimenti concreti, quindi, l’allarme della Direzione investigativa antimafia (Dia) che, nella sua relazione riferita al secondo semestre 2018 e riportata ieri dal nostro giornale, segnala che l’anno scorso in Trentino Alto Adige sono state registrate 1.050 operazioni finanziarie sospette, di cui 80 attinenti alla criminalità organizzata e 970 relative ai cosiddetti “reati spia”, come impiego di denaro, beni e utilità di provenienza illecita, usura, estorsione, danneggiamento seguito da incendio. Anche se va ricordato che nell’ambito della criminalità organizzata ci sono sia le mafie italiane che quelle straniere, più volte citate nella relazione della Dia.

Proprio in questi giorni l’Unità di informazione finanziaria, la struttura di intelligence della Banca d’Italia dedicata alla lotta al riciclaggio di denaro sporco, ha reso noto nella sua newsletter i dati degli Sos, segnalazioni di operazioni sospette di riciclaggio, nel primo semestre 2019. In Trentino, ai 678 Sos del 2018, se ne aggiungono altri 287 in sei mesi, in Alto Adige 373, per un totale regionale di 660 segnalazioni.
Il sodalizio ndranghetistico locale, si legge nell’ordinanza Grimilde del Tribunale di Bologna, presenta la fisionomia di una struttura criminale moderna con una dimensione prettamente affaristica. Il gruppo emiliano è risultato essere in rapporti con quei poteri (politica, informazione, forze dell’ordine) che ne dovrebbero contrastare l’esistenza. Si tratta di un’associazione arricchita dalla presenza di imprenditori mafiosi in grado di raffinare le strategie, aumentare la disponibilità di denaro, la potenza e finanche offrire alla congrega un vestito più presentabile in modo tale da potersi presentare in ambienti che in precedenza apparivano immuni.
Antonio e Cesare Muto, in particolare, sono accusati di aver fatto da prestanome e coperto esponenti delle ndrine nelle società C-Project srl di Reggio Emilia, che gestiva la discoteca Italghisa, e (solo Antonio Muto) Matilda srl di Quattro Castella (Reggio Emilia) e Monreale srl sempre di Quattro Castella, a cui faceva capo la discoteca Los Angeles. Nell’interrogatorio di garanzia del 29 giugno Antonio Muto, già in carcere perché condannato nel rito abbreviato e nel primo grado del processo Aemilia (vedi sotto) a un totale di 20 anni e 6 mesi, ha respinto le accuse sostenendo che la discoteca Italghisa era effettivamente gestita da lui e dal fratello Cesare.

Nell’ordinanza dell’operazione Grimilde spicca la varietà delle attività economiche in cui l’accusa ipotizza che vengano reinvestiti proventi dell’attività criminale: l’edilizia e le cave ci sono ancora, ma sempre più si parla di locali, bar, discoteche, catering. Varia e anche complessa è inoltre la gamma di operazioni e di reati finanziari. Si indaga su contratti di credito al consumo, leasing, uso di carte prepagate, su truffe a enti pubblici relative anche a fondi europei. E i fratelli Muto spuntano qua e là in alcune di queste operazioni. Come ad esempio i bonifici alla Muto Logistica e Trasporti srl da parte della società Riso Roncaia spa, quella della truffa aggravata per conseguire contributi europei.
O come l’Immobiliare San Francisco srl di Reggio Emilia, costituita nel 2006 - pare che il nome faccia riferimento ad un Francesco della famiglia Grande Aracri - da quattro persone tra cui Antonio Muto e Michele Pugliese, che nell’ordinanza viene definito «pluripregiudicato, condannato per associazione di stampo mafioso e altro con sentenza della Corte di assise di Catanzaro irrevocabile il 20 giugno 2014». Negli stessi anni Pugliese era socio al 30% della società Il Muretto srl che gestiva un bar a Mezzolombardo. Il 20 novembre 2009 la Procura della Repubblica di Catanzaro-Direzione distrettuale antimafia disponeva il sequestro preventivo d’urgenza della quota di Pugliese ne Il Muretto.

domenica 28 luglio 2019

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sabato 14 settembre 2019

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mercoledì 25 settembre 2019

‘Ndrangheta in Emilia, due arresti: uno è il nipote del boss Grande Aracri. La denuncia della vittima: “Minacciato e picchiato”
di Paolo Bonacini

Destinatari del provvedimento restrittivo Paolo Grande Aracri e Manuel Conte, entrambi già arrestati a giugno scorso nell'ambito dell'operazione Grimilde e ritenuti dagli investigatori responsabili del reato di estorsione ed intestazione fittizia di beni

Un nuovo capo di imputazione, quattro indagati e due nuovi arresti a Brescello, comune già commissariato per mafia nel 2016. L’operazione della DDA di Bologna è una costola dell’indagine Grimilde, che nel giugno di quest’anno ha portato dietro le sbarre su decisione del giudice Ziroldi 11 dei 76 accusati, per una cinquantina di reati che vanno dall’associazione mafiosa alla corruzione, dalle minacce alla calunnia, da aggiungere a una miriade di intestazioni fittizie di beni, società, carte di credito e conti correnti postali e bancari.

Sotto accusa, ancora una volta, la famiglia di ‘ndrangheta Grande Aracri: l’arresto coinvolge Paolo, 29enne figlio di Francesco, uno dei tanti fratelli del boss Nicolino che ancora vivono sulle sponde del Po. Era già in carcere da giugno assieme al padre dopo la misura cautelare della prima sentenza di Grimilde. Ai domiciliari era invece l’altro arrestato, Manuel Conte, nato a Viadana 28 anni fa e residente sempre a Brescello, considerato dalla Procura il braccio violento del sodalizio, che aveva picchiato, minacciato e umiliato il titolare del bar “Da Max”, in centro a Parma, per costringerlo a cedere il locale. È stato il racconto dettagliato della vittima a consentire agli inquirenti di ricostruire con precisione l’accaduto e la sentenza del giudice per le indagini preliminari mette a fuoco il valore di questa confessione che ha fatto emergere “intimidazioni, violenze e vessazioni psicologiche” sconosciute alle indagini precedenti.

Il titolare voleva vendere il locale e si era accordato per 45mila euro con una coppia residente a Brescello: Salvatore Frijio e Simona Dima. Quando si fanno avanti Paolo Grande Aracri e Manuel Conte, Frijio si ritira nonostante avesse già pagato una caparra per il bar. “Paolo e Frijio si sono parlati, lo hanno fatto davanti a me. Paolo era molto categorico: il bar lo acquistava lui e ho potuto notare che Frijio manteneva un atteggiamento dimesso”. Paolo gli intimò di non rivelare mai il cognome Grande Aracri, perché lui era “il nipote di un boss soprannominato Gommino, che aveva avuto dei sequestri” e che non si voleva esporre. Il riferimento a Nicolino Mano di Gomma è chiaro e sufficiente per incutere timore.

Massimo, il vecchio proprietario, vende così il bar a Grande Aracri e Conte nel febbraio 2018, ma non riceverà mai un soldo. Dal notaio si presenta un prestanome, Daniele Soncini (indagato assieme alla commercialista Monica Pasini che cura la pratica), e l’atto viene firmato per 10mila euro senza garanzie. È solo un quarto dell’accordo iniziale, ma questi soldi Massimo non li vedrà mai, come non vedrà il proprio compenso da dipendente per il lavoro che continua a svolgere nel bar: “Il pagamento non è mai avvenuto. Dopo alcune mie richieste ho ricevuto delle minacce soprattutto da Conte Manuel, il quale mi ha colpito a schiaffi davanti ad una mia ex dipendente. Una volta mi ha dato un pugno che mi fece sanguinare il naso, perché non facevo le cose che voleva lui, altre volte perché non tornavano i conti della cassa del bar. Una volta ricordo che mi ha spogliato dei vestiti che indossavo per controllare che non nascondessi dei soldi. Manuel era sempre molto violento, faceva sempre minacce e mi perseguitava. A volte prendeva la mia Fiat Multipla e girava per le zone a traffico limitato prendendo multe che poi io pagavo. Un’altra volta, con la sua auto ammaccata, urtò la mia macchina per ripararla con la mia assicurazione. Paolo Grande Aracri assisteva sempre a queste violenze ma non se ne preoccupava. Tra i due c’era molta intesa, c’era una forte complicità. Solo ora posso capire il loro atteggiamento nei miei confronti e i raggiri che ho subito.”

Nella selva di reati e di false intestazioni che costellano le attività di ‘ndrangheta in Emilia Romagna, con uno degli epicentri a Brescello, questa storia del bar “Da Max Coffe and Food” di Parma è una vicenda minore, ma il valore della denuncia e della testimonianza di Massimo è elevato.

Il comandante della Squadra Mobile di Bologna Luca Armeni, che ha condotto le indagini sotto il coordinamento del sostituto procuratore antimafia Beatrice Ronchi, ne sottolinea l’importanza e l’esempio: “Grimilde ha dato un duro colpo alla cosca operativa a Brescello. Chi ha subito intimidazioni e violenze può parlare sapendo che le Forze di Sicurezza sono in grado di garantire protezione, tutela, capacità e rapidità d’intervento. I capi sono in carcere e l’esempio di Massimo ci dice che la consapevolezza e il coraggio nella denuncia di soprusi e atti illeciti sono fondamentali per il contrasto alle prevaricazioni mafiose e per il ripristino della legalità. L’auspicio è sempre che non ci siano altri reati ancora da disvelare; ma se ci sono, la speranza è che siano anche e sempre più i cittadini ad aiutarci a farli emergere”.

Nella sentenza del processo Aemilia viene indicato come un valore l’appello che l’allora presidente della provincia Sonia Masini lanciò nel 2012 alla comunità meridionale, e fino a prova contraria onesta, residente a Reggio Emilia: “Cutresi, parlate”. La Procura Antimafia e le Forze di Polizia oggi allargano quell’appello: “Brescellesi e reggiani, parlate. Noi saremo al vostro fianco”.

 

giovedì 26 settembre - venerdì 27 settembre 2019

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venerdì 8 novembre 2019

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mercoledì 20 novembre

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Reggio Emilia, il sospetto degli inquirenti sull’allarme bomba al tribunale: ‘Diversivo per sviare attenzione da sequestri a ‘ndrangheta’
di Paolo Bonacini - Il Fatto Quotidiano

Alle 9 del mattino una voce con accento calabrese avverte: al palazzo di giustizia del capoluogo emiliano c'è un ordigno che esploderà alle 11. Allo stesso orario in cui è previsto l’inizio di una conferenza stampa dei carabinieri del Reparto Operativo di Modena e del Raggruppamento Speciale di Bologna. Oggetto: i sequestri di beni ai fratelli Muto. Un inquirente al fatto.it;: "Sospettiamo che la chiamata sull'allarme bomba sia stata un atto diversivo per sviare l’attenzione dai sequestri"

Alle 9 di mattina una voce anonima al telefono, con un forte accento calabrese, informa che alle 11 precise una bomba scoppierà nel Tribunale di Reggio Emilia. Alla stessa ora, le 11 di mattina, è previsto l’inizio di una conferenza stampa dei carabinieri del Reparto Operativo di Modena e del Raggruppamento Speciale di Bologna per illustrare gli ultimi sviluppi dell’operazione Grimilde, nell’ambito del contrasto alle mafie in Emilia Romagna. C’è qualche collegamento tra i due episodi? Lo pensano sia la procura che i carabinieri. “Una curiosa coincidenza. Piuttosto sospettiamo che la chiamata sull’allarme bomba sia stata un atto diversivo per sviare l’attenzione dai sequestri”, racconta un investigatore al fattoquotidiano.it.

La fonte si riferisce ai nuovi sequestri patrimoniali per oltre 9 milioni di euro compiuti ieri, sotto il coordinamento del procuratore antimafia Beatrice Ronchi, che colpiscono due fratelli Muto (Antonio e Cesare), appartenenti ad una delle famiglie più note della ‘ndrangheta di origine crotonese e maggiormente colpite dalle sentenze del processo Aemilia. Il timore di una bomba a Reggio, può aver pensato l’autore della telefonata anonima, toglierà attenzione dalla conferenza stampa di Modena.

La bomba in realtà non c’era ma la telefonata ha comportato l’attivazione delle procedure di sicurezza e la immediata evacuazione del Tribunale. Sono arrivati i reparti specializzati con artificieri, robot e cani addestrati, che hanno passato al setaccio l’intero palazzo, compresa l’aula bunker dove per tre anni si sono svolte le udienze di Aemilia, il più grande processo alla ‘ndrangheta della storia italiana. Quell’aula la conoscono bene gli otto membri della famiglia Muto indagati dai procuratori Marco Mescolini e Beatrice Ronchi e tutti condannati dai giudici di primo grado o dalla sentenza di Cassazione del rito abbreviato. Quattro di loro si chiamano Antonio e per distinguerli in aula si utilizzava l’anno di nascita. Antonio Muto ’71, condannato a Reggio Emilia a 20 anni e 6 mesi complessivi per appartenenza ad associazione mafiosa ed altri reati, è uno dei due membri della famiglia ai quali sono stati ieri sequestrati i beni dai Carabinieri. L’altro è il fratello Cesare, indagato nell’operazione Grimilde. Un’inchiesta che nel 2019 ha prodotto 76 richieste di rinvio a giudizio per le attività mafiose portate avanti anche dopo gli arresti di Aemilia nel 2015 da uomini e donne collegati alle cosche Grande Aracri/Sarcone.

‘Ndrangheta in Emilia. Prestanome e “cartiere” per schermare le aziende, sequestrato il patrimonio dei Muto
CN24.it

Cinque aziende nel settore degli autotrasporti ed immobiliare che solo nel 2017 hanno fatturato circa 3 milioni e mezzo di euro e dal patrimonio netto complessivo poco più di un milione; e poi una dozzina di immobili, tra cui due capannoni industriali dove hanno sede delle aziende di autotrasporti, tre abitazioni e due ettari e mezzo di terreno, tutti acquistati ad un prezzo totale di 3 milioni.

A questi si aggiungono più di un centinaio di mezzi del valore di un milione di euro: 92 veicoli, tra cui 28 trattori stradali; 43 semirimorchi; 5 autobus; 4 furgoni; 2 autocarri; 10 autovetture, tra le quali una Maserati e due Volkswagen; ed un motociclo. Infine una decina di rapporti bancari con saldi positivi per circa 100 mila euro.

È questo in sintesi il patrimonio - stimato in ben 9 milioni di euro - su cui stamani è calata la scure della Dda di Bologna che lo ha fatto sequestrare (tra Reggio Emilia, Parma, Mantova e Crotone) nell’ambito dell’operazione denominata Grimilde, a due fratelli imprenditori originari del crotonese, Antonio e Cesare Muto (QUI), che gli inquirenti considerano appartenenti entrambi alla ‘ndrangheta emiliana storicamente legata alla cosca dei Grande Aracri di Cutro. Antonio Muto, in particolare, è stato condannato, in primo grado, nel corso dell’ormai noto processo “Aemilia” con l’accusa di associazione mafiosa, truffa ed estorsione (tutti reati dal 416 bis).

Proprio le indagini effettuate sia nell’ambito delle operazioni Aemilia (QUI) che Grimilde (QUI), avevano già dato origine a interventi repressivi di notevole portata nei confronti della ‘ndrangheta attiva nella ricca regione del centro Italia, che si ritiene sia capeggiata dai fratelli Sarcone, da Alfonso Diletto, Francesco Lamanna, Francesco e Salvatore Grande Aracri ed altri.

Interventi che - sfociati prima nelle due storiche sentenze Aemilia, pronunciate il 31 ottobre del 2018 (QUI), e quindi negli arresti dell’Operazione Grimilde effettuati a Brescello (Reggio Emilia) nel giugno scorso (QUI), dove a finire in manette fu anche Antonio Muto (48 anni) per fittizia intestazione di quote societarie – avrebbero confermato ulteriormente la presunta ingerenza della cosca locale nella gestione e controllo di attività imprenditoriali (formalmente intestate a prestanome) e nell’accumulo illecito di significativi patrimoni personali.

LA GESTIONE OCCULTA DI IMPRESE NAZIONALI

Dall’esito delle indagini patrimoniali svolte nei confronti degli interessati, e dalle risultanze emerse dai precedenti interventi, gli inquirenti si dicono certi di avere trovato delle conferme su una “gestione occulta” di imprese che operano in tutta Italia.

In particolare, analizzando oltre 700 rapporti bancari, si è arrivati a ricondurre ai Muto ogni processo decisionale interno alle società, per cui qualsiasi “ordine” relativo alle operazioni aziendali sarebbe stato “vagliato e gestito dai reali dominus, dietro lo schermo di compiacenti prestanome”.

Dopo appena due mesi da una interdittiva antimafia che li aveva colpiti nel 2013, gli imprenditore avrebbero costituito ed avviato una nuova società di trasporti e di viaggi turistici, la Cospar, intestandone le quote ad un presunto prestanome, Salvatore Nicola Pangalli, ingegnere di origini crotonesi.

Dagli accertamenti bancari si è però arrivati a ritenete che quest’ultimo avesse costituito l’azienda con risorse messegli a disposizione dalle società dei Muto, facendole transitare su dei conti di una società “cartiera”.

Infine, l’indagine di tipo economico-finanziaria avrebbe confermato i legami tra i fratelli Muto e gli altri imprenditori già condannati per aver fatto parte alla ‘ndrangheta emiliana, come Giuseppe Giglio ed i fratelli Vertinelli.

Le indagini che hanno portato al sequestro di oggi sono state coordinate da Beatrice Ronchi, della Procura Distrettuale Antimafia di Bologna. Il provvedimento è stato eseguito dal Ros, il Raggruppamento Operativo Speciale, e dal Comando Provinciale dei Carabinieri di Modena.

‘Ndrangheta: sequestrati beni per 9 milioni di euro ai fratelli Muto
CN24.it

L’operazione tra l’Emilia e Crotone. Le indagini hanno evidenziato come, dopo essere stati colpiti dall’interdittiva antimafia nel 2013, avessero costituito una società intestandone le quote a un prestanome

MODENA – Reggio Emilia, Parma e Crotone. Sono queste città i tre vertici del triangolo al centro dell’operazione coordinata dalla Dda di Bologna con Beatrice Ronchi ed eseguita dai carabinieri del Ros e del comando provinciale di Modena.

Il risultato dell’indagine è un provvedimento di sequestro d’urgenza di beni mobili e immobili per un corrispettivo di 9 milioni di euro riconducibili ai fratelli Antonio e Cesare Muto di Gualtieri. Il primo, 48 anni, è attualmente detenuto perché condannato nel primo grado del processo contro la ‘ndrangheta Aemilia per associazione mafiosa, truffa ed estorsione e figura tra i coinvolti nell’operazione Grimilde con gli arresti dell’alba del 26 giugno scorso a Brescello e in altri paesi della Bassa reggiana.

Secondo quanto emerso i due, entrambi imprenditori edili, nel 2012 avrebbero attribuito fittiziamente la titolarità delle loro società a soggetti diversi, e nel 2013, dopo essere stati colpiti da interdittiva antimafia, avrebbero costituito la società Cospar attiva nella commercializzazione degli inerti e dei trasporti, intestandone le quote a Salvatore Nicola Pangalli, ingegnere crotonese residente a Parma.

Sono stati bloccati cinque aziende e poi capannoni industriali, abitazioni, due ettari e mezzo di terreno acquistati a un prezzo di tre milioni, un centinaio di veicoli tra cui una cinquantina di semirimorchi, cinque autobus e una Maserati e nove rapporti bancari.

Attraverso l’analisi degli oltre 700 rapporti bancari, gli inquirenti hanno evidenziato la riconducibilità agli indagati di ogni processo decisionale interno alle aziende, per cui qualsiasi “ordine” veniva vagliato e gestito da loro dietro lo schermo di compiacenti prestanome. Le indagini avrebbero anche confermato i legami tra i Muto e altri membri del sodalizio quali Giuseppe Giglio e i fratelli Vertinelli.

Ndrangheta, carabinieri di Modena sequestrano beni per 9 milioni a imprenditori di logistica e trasporti
Gazzetta di Modena

I fratelli Muto, nel 2012, avevano  attribuito fittiziamente la titolarità delle loro società a soggetti diversi e nonostante interdittiva antimafia, avevano  anche costituito la società Cospar s.r.l, operativa nel campo della commercializzazione degli inerti e dei trasporti, intestandone le quote a personaggi legati alla Ndrangheta

MODENA - Nella mattinata di martedì 19 novembre il R.O.S. e il Comando Provinciale Carabinieri di Modena hanno dato esecuzione ad un decreto di sequestro preventivo, emesso dalla D.D.A. di Bologna, nei confronti dei fratelli Antonio Muto  (attualmente detenuto poiché condannato in I grado nell’ambito del processo Æmilia per associazione di tipo mafioso, truffa ed estorsione, tutti reati aggravati dalla finalità mafiosa) e Cesare Muto, imprenditori attivi nel settore della logistica e trasporti, dei quali è stata confermata l’appartenenza al circuito economico-relazionale facente capo al sodalizio ‘ndranghetistico emiliano, storicamente legato alla cosca Grande Aracri di Cutro (KR), capeggiata dall’ergastolano Nicolino Grande Aracri.

Le indagini hanno evidenziato come i fratelli Muto, nel 2012, avessero attribuito fittiziamente la titolarità delle loro società a soggetti diversi e, nel 2013, dopo essere stati colpiti da interdittiva antimafia, avessero anche costituito la società Cospar s.r.l, operativa nel campo della commercializzazione degli inerti e dei trasporti, intestandone le quote a Salvatore Nicola Pangalli.

 L’intervento, che si inserisce nella più ampia manovra di contrasto all’infiltrazione della ‘ndrangheta nel tessuto economico dell’Emilia Romagna, sta interessando le province di Reggio Emilia, Parma e Crotone e sta riguardando beni immobili e mobili per un valore stimato di 9 milioni di euro.

L’esecuzione ha interessato le province di Reggio Emilia, Parma, Mantova e Crotone, ed ha comportato il sequestro di:

- 5 aziende operanti nel settore degli autotrasporti ed immobiliare, per un fatturato relativo all’anno 2017 di circa 3 milioni e mezzo di euro, ed un patrimonio netto complessivo di € 1.063.999,00;

- 12 immobili (tra cui 2 capannoni industriali sede delle aziende di autotrasporti, 3 abitazioni e 2 ettari e mezzo di terreno), acquistati ad un prezzo complessivo di 3 milioni euro;

- 92 veicoli, tra cui 28 trattori stradali, 43 semirimorchi, 5 autobus, 4 furgoni, 2 autocarri, 10 autovetture tra cui una Maserati e due Volkswagen ed 1 motociclo acquistati ad un prezzo complessivo di oltre 1 milione e mezzo di euro;

- 9 rapporti bancari con saldi positivi per circa 100.000,00.

Ndrangheta, coinvolta una società di trasporti a Parma
Repubblica - Parma

Provvedimento di sequestro emesso dalla Dda di Bologna nei confronti dei fratelli Muto.

Nuovo scacco alla 'ndrangheta in Emilia-Romagna.

I carabinieri del Ros di Bologna con i colleghi del comando provinciale di Modena hanno dato esecuzione a un decreto di sequestro preventivo di beni emesso d'urgenza dal pm della Direzione distrettuale antimafia di Bologna Beatrice Ronchi, nei confronti dei fratelli Antonio (classe 1971) e Cesare Muto, il primo detenuto dopo la condanna in primo grado a 20 anni nei due riti del processo Aemilia per associazione di stampo mafioso, truffa ed estorsione (aggravati dal metodo mafioso), e il secondo non sottoposto ad alcuna misura cautelare.

I due imprenditori, attivi nel settore della logistica e trasporti, sono indagati insieme ad altre quattro persone, accusate di aver fatto da "prestanome" in attività economiche gestite in realtàà dai fratelli, riconosciuti come affiliati del sodalizio 'ndranghetistico emiliano legato alla cosca della famiglia Grande Aracri di Cutro.
L'operazione dei carabinieri chiude il cerchio su una serie di accertamenti iniziati anni fa, che si collocano nei filoni di indagine dell'inchiesta Aemilia e Grimilde, quest'ultima scattata lo scorso giugno a Brescello.
I beni sequestrati ai Muto, per un valore complessivo stimato in nove milioni, riguardano innanzitutto cinque aziende del settore immobiliare, della logistica e del trasporto di inerti (con fatturati intorno ai tre milioni di euro l'anno), con sedi operative a cavallo delle province Reggio Emilia, Parma e Mantova, ma diramazioni anche a Crotone. Le sedi legali delle società sono però tutte a Gualtieri, nel reggiano, epicentro dell'impero dei Muto.
I sigilli dell'autorità giudiziaria sono stati messi anche su 12 immobili (tra cui due capannoni, tre case e due ettari e mezzo di terreno), 92 veicoli (mezzi da lavoro come trattori stradali e semirimorchi, ma anche una Maserati e una Volkswagen) e nove rapporti bancari.
Le indagini, partite anni fa e che hanno considerato oltre 700 rapporti bancari, hanno evidenziato come i Muto nel 2012 avessero attribuito fittiziamente la titolarità delle loro società a madri e mogli ma nel 2013, dopo essere stati colpiti da un'interdittiva antimafia della Prefettura, avevano cambiato strategia.
Creando cioè la società con sede a Parma Cospar Srl con sede in via D'Azeglio, operativa nel campo della commercializzazione degli inerti e dei trasporti e intestandone le quote ad un terzo (Salvatore Nicola Pangalli) con cui non hanno legami di parentela, per evitare provvedimenti ablativi del patrimonio riversato nell'azienda.
Per il comandante dei carabinieri di Modena Marco Pucciatti "questa operazione è l'ennesimo sviluppo di affermazione dello Stato sul territorio per il quale si conferma che le organizzazioni criminali non hanno affatto perso interesse".

giovedì 21 - venerdì 22 - mecoledì 27 - novembre 2019

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giovedì 12 dicembre 2019

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venerdì 13 dicembre 2019

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gennaio - febbraio 2020

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mercoledì 11 marzo 2020

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30 aprile 2020

Grimilde, escamotage per l’avvio in aula

di Tiziano Soresina - Gazzetta di Reggio

Un “patto” del gup con gli avvocati per rendere meno affollata il 13 maggio l’udienza di partenza al tempo del Covid-19

Le prime dieci “tappe” dell’udienza preliminare di Grimilde messe in calendario sono saltate a causa dell’emergenza sanitaria legata al Coronavirus, ma ora il gup Sandro Pecorella non vuole altri slittamenti (premono i termini di scadenza, in estate, delle misure cautelari) e l’intenzione è di far partire davvero, questa volta, il procedimento focalizzato sulla operazione antimafia esplosa nel giugno dello scorso anno e con Brescello nel mirino (accusati di associazione mafiosa Francesco Grande Aracri nonché i figli Salvatore e Paolo).


Una partenza che, il 13 maggio, anticiperà di un giorno quella dell’appello di Aemilia e nello stesso luogo, cioè l’aula-bunker del carcere bolognese della Dozza.

Anche Grimilde si profila come un procedimento affollato, anche se non a livello del maxiprocesso Aemilia. Il pm Beatrice Ronchi ha infatti chiesto il rinvio a giudizio per 79 imputati, di cui 26 con misure restrittive: in carcere (in certi casi per altra causa) sono in 22, gli altri 4 agli arresti domiciliari.

I detenuti, sparsi nelle strutture di mezza Italia, possono chiedere di essere videocollegati con l’aula-bunker, comunque alla prima udienza – sulla carta – hanno diritto di partecipare i magistrati, gli imputati a piede libero (sono 53) e i rispettivi difensori, nonché gli avvocati che rappresentano chi intende costituirsi parte civile, oltre ad ovviamente gli agenti a presidio.

Un numero rilevante per l’aula-bunker bolognese (più piccola di quella allestita a Reggio Emilia) che come posti ovviamente si “restringerà” ulteriormente per l’obbligo di mantenere la distanza di sicurezza fra le parti. L’obiettivo del giudice è, quindi, quello di una partecipazione minore, puntando sulla rappresentatività dei difensori e degli avvocati di parte civile (con delega da parte degli altri colleghi) il che limiterebbe pure la presenza di non pochi imputati. Un escamotage che andrebbe ad associarsi a controlli (anche al metal detector), mascherine, guanti e gel igienizzante come da decreto. Sullo sfondo le non poche richieste di scarcerazione, invocando il timore di ammalarsi di Covid-19.

Detenuti che ritengono necessari gli arresti domiciliari per evitare il contagio. Sinora nessuna di queste istanze è stata accolta dal tribunale di sorveglianza. Al momento non ha ricevuto risposta Antonio Muto (classe 1971, d’origine crotonese ma residente a Gualtieri) sotto processo sia in Aemilia che in Grimilde: nel maxiprocesso è stato condannato in primo grado a 20 anni e mezzo di reclusione, nel secondo è accusato di intestazione fittizia. Arresti domiciliari chiesti pure dal politico piacentino Giuseppe Caruso, dal povigliese Pascal Varano, dal parmigiano Claudio Bologna e dal crotonese Giuseppe Strangio. —

11 maggio 2020

Mafie, il Comune di Reggio Emilia sarà parte civile nel processo Grimilde

Gazzetta di Reggio

Lo annuncia l'assessore alla legalità, Nicola Tria, aggiungendo che nei prossimi giorni sarà smontata l'aula bnker di Aemilia e collocata nei magazzini comunali

L’impegno dell’Amministrazione sui temi della legalità prosegue – aggiunge l’assessore Tria – mercoledì infatti il Comune di Reggio si costituirà parte civile nel processo Grimilde, un’appendice del processo Aemilia, la cui udienza preliminare riprenderà mercoledì 13 maggio nell’aula bunker del carcere di Bologna”. Lo afferma l'assessore alla Legalità, Nicola Tria, annunciando fra l'altro che l'aula bunker di Aemilia, che si trova allestita nel Palazzo di Giustizia di Reggio Emilia, sarà presto smontata e collocata nei magazzini comunali.

Lo ha deciso la scorsa settimana la Giunta comunale, modificando la precedente indicazione secondo la quale la struttura doveva essere riallestita in via Belgio, quartiere Orologio, in un’area adiacente al parco Ottavi per essere messa a disposizione quale Spazio civico,luogo di incontri e assemblee, sede di associazioni e del Centro di documentazione sulle mafie di Reggio Emilia.
 

Alla luce delle nuove condizioni sociosanitarie legate al contenimento del virus Covid 19, si è infatti optato per collocare temporaneamente la struttura in un luogo di stoccaggio in attesa di capire le future disposizioni di utilizzo e fruizione degli spazi pubblici. La situazione di emergenza e incertezza creata dall’epidemia di Covid 19 e il conseguente obbligo del mantenimento del distanziamento sociale per un periodo ancora indefinito, ma sicuramente non a breve termine, ha infatti fatto emergere la necessità di ripensare alla progettazione e alle modalità di utilizzo di questa struttura, così come di tutti gli spazi funzioni sociali e collettive.

“La cosiddetta aula bunker – dice l’assessore alla Legalità Nicola Tria - avrà comunque un futuro e resterà in magazzino solo lo stretto necessario. Rimane invariata la nostra intenzione di restituire questo spazio alla collettività, per renderla luogo di attività civiche, associative e di attenzione socio-culturale anche ai temi della legalità e del contrasto alle infiltrazioni mafiose. Appena il quadro di riferimento sarà chiaro ci adopereremo per definirne la collocazione e le funzioni”.

La struttura è attualmente allestita nel cortile del Palazzo di giustizia, dal quale è necessario rimuoverla quanto prima per consentire, una volta liberata l’area che occupa, condizioni di maggior distanziamento sociale negli spazi del tribunale stesso. Per le operazioni di smontaggio e stoccaggio, comprensive della sistemazione e messa in sicurezza dell’area di via Mazzacurati, sono stati messi a disposizione 230mila euro.

 

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