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AEmilia

udienza nr. 160

(rito abbreviato - 23 imputati)

martedì 27 marzo 2018

Iniziano le prime fasi del rito abbreviato, all'interno di Aemilia, che vede coinvolti 23 imputati. L'udienza rimane pubblica pubblico e giornalisti rimangono in aula. Il presidente Francesco Maria Caruso: "Il dibattimento pubblico garantisce tutto e tutti. E' la miglior garanzia di trasparenze e correttezza".

Blasco Gaetano

Bolognino Michele

Bolognigno Sergio

Brescia Pasquale

Cavedo Maurizio

Crivaro Antonio

Floro Vito Antonio

Floro Vito Gianni (detto Giuseppe)

Mancuso Vincenzo

Muto Antonio cl. 1971

Muto Antonio cl. 1978

Muto Luigi cl. 1975

Muto Salvatore cl. 1977

Riillo Pasquale

Sarcone Gianluigi

Schirone Graziano

Sergio Eugenio

Silipo Luigi

Valerio Antonio

Vertinelli Giuseppe

Vertinelli Palmo

Vetere Pierino

Vulcano Mario

RASSEGNA STAMPA

«Lettera al sindaco, lui mi definì boss»

Pasquale Brescia rivendica la missiva: «È stato un attacco personale, ho fatto tutto da solo». E nega il registratore in cella

Gazzetta di Reggio - di Ambra Prati - 28 Marzo 2018

REGGIO EMILIA. «Volevo scrivere già prima, ma quando il sindaco di Reggio Emilia mi definì boss lo presi come un attacco personale verso di me e scrissi quella lettera». È quanto ha dichiarato in aula Pasquale Brescia, uno degli imputati del maxiprocesso Aemilia, dove ieri gli imputati dell’abbreviato hanno replicato alle imputazioni aggiuntive dal 2015 ad oggi (derivate dalle rivelazioni dei pentiti Antonio Valerio e Salvatore Muto) su «inquinamento probatorio e intimidazioni dei testimoni».

Durante l’esame Brescia ha fatto riferimento alla celebre lettera indirizzata al sindaco Vecchi il primo febbraio 2016, recapitata a “Il Resto del Carlino” dall’avvocato Antonio Comberiati (finito a sua volta sotto accusa per minacce e assolto, la Dda ha impugnato). Nella missiva Brescia invitava il primo cittadino a dimettersi e tirava in ballo le parentele della moglie, Maria Sergio. Secondo l’imputato, una “risposta” a due interventi del sindaco apparsi sulla stampa il 24 e il 26 gennaio, che rivendicavano la confisca del Comune del maneggio abusivo di Brescia a Cella.


Brescia, difeso dall’avvocato Gregorio Viscomi, ha tenuto a precisare che la lettera è stata farina dal suo sacco, visto che invece i pm sostengono la tesi della strategia di contrattacco mediatico condivisa dall’organizzazione ’ndranghetista. «Non ho coinvolto nessun altro, non c’era bisogno: ero io il soggetto attaccato», ha dichiarato Brescia, che a precisa domanda sul cognome Sergio ha replicato: «Non è il Sergio che millanta Valerio (il 60enne Eugenio Sergio, ndr), che ha rovesciato l’anagrafe di Cutro: è Francesco, uno zio di Maria Sergio».

L’intento di confutare i pentiti è stato evidente da parte di Brescia («ho avuto a che dire con loro, per cose lievi»): sulla lettera ad Antonio Muto classe 1955 («gli ho scritto perché era un amico, non mi ha risposto»), sulle presunte altre lettere ai vertici Iren e Transcoop («è falso»); sulla lista dei testimoni («l’ha stilata il mio avvocato, nessuno mi ha imposto di rinunciare a testi»).

Sull’accusa di essersi adoperato per far entrare nel carcere un microregistratore con scheda Sd: «Assolutamente no, non è vero. Quel registratore è entrato durante un colloquio diretto, come facevo a sapere io chi c’era a colloquio quel giorno?». Dopo la scoperta del registratore «mi hanno raso al suolo la cella e mi hanno tolto il computer restituendomelo dopo un mese. Ringrazio la Corte perché con quel pc posso studiare tutto il giorno». Al mattino è continuato l’esame di parte dei 25 che hanno scelto l’abbreviato, mentre nel pomeriggio ha tenuto banco la questione intercettazioni (non ancora trascritte). Prossima udienza martedì 3 aprile.

«Supervigilati, ma quali manovre»

Bolognino: «Per 23 ore solo». Muto: «Non conosco Grande Aracri»

Gazzetta di Reggio - 28 Marzo 2018

REGGIO EMILIA. Se eravamo in carcere duro al 41-bis e supersorvegliati, come potevamo commettere gli illeciti degli ultimi tre anni? È la tesi tornata, come un refrain, nell’esame degli imputati dell’abbreviato ieri ad Aemilia.

A partire da Michele Bolognino (interrogato dall’avvocato Vito Salvatore Villani su delega del difensore Carmen Pisanello), che prima ha dichiarato che nessuno dei suoi accusatori (i pentiti, «che affermano di conoscermi bene») sapeva che dal 2013 era assunto e lavorava a Roma, per una società che installa satellitari sui camion. «Sono stato detenuto prima a Velletri, poi a Rebibbia, in un’area riservata insieme ad un ergastolano: per 23 ore al giorno non vedevo nessuno, ho subìto 5 perquisizioni al giorno, avevo le telecamere sul letto, in bagno e in doccia (poi tolte)».


Luigi Muto, indicato dai pentiti (Valerio è suo cugino) come uno dei quattro reggenti della cosca, su domanda dell’avvocato Villani ha dichiarato: «Non avevo contatti con gli altri imputati già prima dell’arresto. Il boss Grande Aracri? L’ho visto solo una volta, in quanto padre della sposa, al matrimonio della figlia con il mio amico d’infanzia Giovanni Abramo». A Muto hanno contestato che, dopo l’auto incendiata, per il carro attrezzi chiamarono Pasquale Brescia. «Corradini mi chiese 600 euro, mio fratello chiamò suo cognato, che ci fece 100 euro».

Gaetano Blasco (avvocato Marilena Facente), in cella prima in Germania, poi a Bologna e Tolmezzo, ha fatto eco: «A Bologna ero in un’altra sezione, non ho mai visto Giuseppe Giglio. Ma quali pranzi e cene? Siamo tutti osservati, vigilati e registrati. Ci mettiamo a fare manovre?».

Beni confiscati e ridestinati, l’Agenzia: Reggio seconda in regione dopo Parma

Reggio Emilia è seconda in regione per beni sequestrati o confiscati (141 su 471), prima per aziende (35 su 88). «Rispetto a quattro anni fa l’Agenzia ha quadruplicato la sua capacità di destinare...

Gazzetta di Reggio - 28 Marzo 2018

Reggio Emilia è seconda in regione per beni sequestrati o confiscati (141 su 471), prima per aziende (35 su 88). «Rispetto a quattro anni fa l’Agenzia ha quadruplicato la sua capacità di destinare gli

immobili. La battaglia alla mafia passa anche dal riutilizzo di questi beni e la loro restituzione alla comunità». Lo ha spiegato il prefetto Ennio Mario Sodano, direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (Anbsc), presentando i dati a Bologna, durante un'iniziativa organizzata dalla Fondazione Fico.


Se in Italia sono stati confiscati 30.360 immobili, sono 471 i beni sequestrati o confiscati in Emilia-Romagna in gestione all’Anbsc in provincia di

Parma (185), Reggio Emilia (141), seguono Bologna (41), Modena (40) e Ferrara (33). Gli immobili già destinati sono 122, la maggior parte nelle province di Forlì-Cesena (27) e Rimini (25). Le aziende sequestrate sono 88: 35 a Reggio Emilia, 18 a Modena. «Si tratta in gran parte di scatole vuote nell’ambito del processo Aemilia – ha detto Sodano – Da Aemilia arriverà un “pacchetto” di edifici e aziende che destineremo nel tempo».

Gianluigi Sarcone: «Studiavo i giornali»

 

Deposizione fiume: legge testi e fa infuriare il pm. Al fratello Carmine scrisse: «Guarda la Gazzetta»

Gazzetta di Reggio - 28 Marzo 2018

REGGIO EMILIA. I giornali locali sorvegliati speciali, le continue esortazioni al fratello minore Carmine in una lettera del 10 marzo 2016: «Non stancarti, la sera consulta il sito della Gazzetta di Reggio». L’esame contestato di Gianluigi Sarcone si è trasformato in oltre un’ora di deposizione fiume: un monologo condito dalla lettura di testi «precotti» (la definizione è del presidente Caruso) e da domande che hanno fatto insorgere più di una volta il pm Beatrice Ronchi, oltre a provocare richiami all’avvocato difensore Stefano Vezzadini.

Era prevedibile. Tra i quattro fratelli di Bibbiano, Gianluigi Sarcone è quello che ha visto aggravarsi maggiormente la sua posizione nelle indagini post 2015: promosso secondo l’accusa negli ultimi tre anni dal rango di «partecipe» a quello di vertice dell’«organizzazione e direzione della strategia del sodalizio ’ndranghetistico» e dando disposizioni ad altri, fuori o dietro le sbarre, per «inquinare le prove ed intimidire i testimoni del dibattimento Aemilia».


In videoconferenza dal carcere di Tolmezzo, un Gianluigi Sarcone indubbiamente sul pezzo ha esordito con un testo scritto su due punti: «Possibile confronto con i pentiti: dico di sì, ma fatelo prima di sentire me, altrimenti verrei danneggiato. Dichiarazioni spontanee dei collaboratori di giustizia: chiedo che non vengano ammesse in ogni caso».

«Sia messo agli atti che l’imputato sta leggendo un testo preparato», sbotta il pm Ronchi, che poco dopo lo accuserà di «consultare l’interrogatorio del Gip di Carmine Sarcone, che lei non dovrebbe conoscere»; il pm fa controllare all’agente di penitenziaria che non abbia con sé il documento.

Gianluigi Sarcone continua con le domande: «Sono centinaia le lettere scritte ai miei familiari in tre anni, dovete dirmi quali sono quelle incriminate». Non gli viene risposto, ma l’imputato prosegue con la tesi del pregiudizio sul suo cognome. «Sono accuse assurde, già nel 2004 mi trovai a difendermi dal fatto di essere fratello di Nicolino». E il pregiudizio sui cutresi in genere. «Certi passaggi delle lettere sono stati mal interpretati. Ad esempio quando dico a Carmine di controllare cosa è uscito sui giornali (Gazzetta, Carlino, Prima Pagina) su Maria Sergio negli anni 2012, 2013 e 2016, il mio obiettivo non era lei: il mio obiettivo era sapere come trattavano certe notizie i diversi giornali. Conservo tutti gli articoli». Il presidente della corte Caruso interrompe: «L’esame è genuino se ha una componente di imprevedibilità, se invece è prefabbricato...».

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