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AEmilia

udienza nr. 159

rito ordinario - primo grado

martedì 20 marzo 2018

RASSEGNA STAMPA

«Ero miliardario, ora solo porte chiuse»

Sfogo in aula di Iaquinta, padre del calciatore: «Dopo le accuse, sono un pezzente. A Reggiolo ho cantieri fermi per milioni»

di Enrico L. Tidona - Gazzetta di Reggio 21 marzo 2018

REGGIO EMILIA. «Ero miliardario e ora sono un pezzente, sono in mezzo alla strada, non ho vergogna a dirlo». È il nuovo sfogo di Giuseppe Iaquinta, cutrese da anni trapiantato nella Bassa reggiana, a Reggiolo, dove ha costruito la sua fortuna diventando uno degli imprenditori immobiliari più grossi in provincia. Del resto, ieri, si è definito lui stesso un «miliardario», portando alla mente i tempi passati, quando era in grado di costruire e ristrutturare a tambur battente. Poi con l’interdittiva antimafia e il successivo arresto del 28 gennaio 2012, la sua galassia si è frantumata. Iaquinta, imputato nel processo Aemilia contro la ’ndrangheta, ieri mattina è stato nuovamente sentito nell’aula del tribunale di Reggio Emilia in merito ai nuovi fatti contestati, con l’integrazione del capo di imputazione per associazione a delinquere di stampo mafioso. La procura antimafia lo considera uno dei sodali del clan Grande Aracri in terra reggiana. Iaquinta, padre di Vincenzo – calciatore campione del mondo anche ieri presente tra il pubblico in aula – aveva passato due mesi in carcere per poi essere scarcerato dal Riesame. Anche a lui viene contestato di aver intrattenuto rapporti con altri imputati dopo essere tornato libero. «Dal 2015 non mi vedo con nessuno, nemmeno una telefonata, li vedo solo qua in tribunale» ha detto ieri Iaquinta durante l’esame. Famose sono le foto agli atti che precedono l’arresto e che lo vedono ritratto anche con il boss Nicolino Grande Aracri assieme al figlio. Conoscenze di paese, come già bollate in passato dall’imprenditore, che ieri ha respinto ogni nuova accusa, incalzato dal suo avvocato, Carlo Taormina, tratteggiando la sua parabola economica: un cutrese che ce l’aveva fatta, diventato un imprenditore con le mani legate. «Io ho immobili invenduti a Reggiolo per circa 10-11 milioni» ha detto ieri rammaricandosi per il terremoto del 2012, il quale ha «mosso però lavori lì per 100 milioni». Occasione sfumata con l’esclusione dalla white list, che ha messo la Costruzioni Iaquinta srl fuori dagli appalti pubblici.

Situazione peggiorata con l’arresto: «Quando sono uscito dal carcere – dice – ho cercato di riprendere a lavorare ma con quello che era successo nessuno mi dava più lavoro. Ho rischiato il fallimento perché le banche mi hanno chiuso i conti. Poi sono riuscito a fare un concordato e rimettere la società in bonis. Ma hanno continuato a dire che ero mafioso, un delinquente. Ora sto facendo un lavoro a Quattro Castella e poco altro». Parla poi di contatti con gli amministratori di Reggiolo e dei tecnici del comune di Bologna per avere rassicurazioni sul prosieguo dei suoi cantieri: «Sono sempre stato una persona onesta. Non ho più avuto rapporti con i coimputati del processo. L’unica mia colpa è quella di dare confidenza a tutti condividendo la fortuna che ho avuto io e quella di mio figlio. Voglio sapere la mia colpa qual è?». Poi, su domanda di Taormina afferma: «Dei Grande Aracri ho salutato solo di sfuggita a Cutro il fratello Domenico, l’avvocato, quando sono andato giù tre giorni per il matrimonio della figlia di mio fratello. Niente altro».

Botta e risposta al vetriolo tra il pentito Valerio e Crivaro

L’uno dice dell’altro di essere un bugiardo. Due imputati al processo Aemilia uno dei quali, Antonio Valerio, si è pentito, indicando l’altro, Antonio Crivaro, quale nuovo riferimento...

Gazzetta di Reggio 21 marzo 2018

REGGIO EMILIA. L’uno dice dell’altro di essere un bugiardo. Due imputati al processo Aemilia uno dei quali, Antonio Valerio, si è pentito, indicando l’altro, Antonio Crivaro, quale nuovo riferimento per la cosca dopo che i capi sono finiti in prigione. Sarebbe uno dei quattro reggenti (insieme a Carmine Sarcone, Luigi Muto e Giuliano Floro Vito) della cosca di Cutro radicata in Emilia, colpita ma non abbattuta dagli arresti del gennaio 2015.

I due, dopo l’esame ieri di Crivaro, accusato di essere un partecipe all’associazione a delinquere di stampo mafioso al centro dell’inchiesta, sono stati risentiti su iniziativa del presidente del collegio, Francesco Caruso, che ha chiesto il confronto diretto tra Valerio, collegato da un sito protetto dopo il pentimento, e Crivaro, presente invece in aula. A Crivaro, uscito dal carcere il 16 febbraio del 2015, viene in particolare contestato di aver assunto nel tempo un ruolo di vero e proprio organizzatore della consorteria, di cui avrebbe continuato a gestire fino ad oggi le attività. Valerio ha riconfermato reati attribuitigli fin dagli anni ’90: una sfilza di illeciti come truffe ad assicurazioni e compagnie telefoniche e false fatturazioni, oltre ad uno stretto rapporto con Luigi Muto e la partecipazione a tutte le riunioni di vertice della cosca e perfino al cospetto del boss Nicolino Grande Aracri. Ma a rendere ancora più incandescente il «duello» di ieri mattina ci sono anche i foschi rapporti pregressi tra i contendenti. Crivaro è infatti parente di Rosario Ruggiero il falegname, detto «tre dita», che negli anni ’70 uccise in Calabria il padre di Valerio, innescando però la vendetta del figlio che raggiunse nel 1992 a Brescello il cugino di Rosario, Giuseppe detto Pino.

Sta di fatto che, in merito alle accuse formulate contro di lui, Crivaro ha dichiarato nel suo esame: «Non so perché Valerio abbia detto queste cose di me. Non lo conosco, non l’ho mai frequentato e neanche preso un caffè». Anzi, si corregge poi, «l’ho incontrato solo una volta tra il 2002 e il 2003 quando, anche se non mi stava simpatico per i nostri trascorsi di famiglia, gli ho fatto un lavoro e lui non me l’ha pagato. Con Luigi Muto frequentavamo vent’anni fa lo stesso bar con altri calabresi». Crivaro conferma poi la sola conoscenza con gli imputati Gaetano Blasco e Antonio Gualtieri.

Valerio rincalza: «Io non ho rancore verso Crivaro per quanto successo a mio padre, parlo per mera verità». E aggiunge: «Oltre a vedere Crivaro in aula che prendeva informazioni, c’era anche mio cugino Antonio Muto classe ’78, detto “la crapa”, che ci raccontava le attività che Crivaro faceva cose con Luigi Muto». Lo scambio di battute sale a questo punto di tono: «Io non so perché parli così, non lo capisco perché dica queste cose. Secondo me le inventa», commenta Crivaro. «Dici che non lavori, ma come fai a campare?», ribatte Valerio: «Come fanno gli imputati a piede libero che vengono sempre qui?».

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